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Si è consolidato il filone saggistico sul tema della stupidità, che sembra aver superato e incorporato il concetto di “analfabetismo funzionale”. In questa rubrica s’è parlato dell’idiota e del cretino e potremmo porre lo stupido come loro messa a sistema, a condizione di intendere il discorso sulla stupidità come un discorso indiretto sulla saggezza.

Riassumendo dal libro di Antonio Sgobba, la “metaignoranza” o stupidità funzionale si basa su un autoinganno, esso protegge la nostra autostima e il nostro ottimismo. Essere metaignorante significa, in sostanza, essere così incompetente su qualcosa da non sapere di esserlo e addirittura da credereil contrario, ma è necessario crederlo per non venir assaliti dall’angoscia di essere tanto vulnerabili rispetto ai pericoli del mondo circostante (coscienza della propria finitezza davanti all’infinito, direbbe un filosofo). È il supercitato effetto Dunning-Kruger: l’incompetente, ignorando la propria ignoranza, si autoinganna e crede di essere competente, e siccome l’autoinganno tende a rafforzarsi (meno so, meno so di non sapere, più credo di sapere, più credo che l’altro non sappia o menta), l’incompetente diventa supponente. La trappola della metaignoranza, per Sgobba, resta senza uscita. Bisognerebbe, al limite, chiedere a qualcuno: ipotesi surreale. Di fatto, essa si chiude in una forma di scetticismo credulo che ritiene tutto falso, meno le proprie credenze. Come dicevano le nostre maestre: quando qualcuno è “asino e presuntuoso” si sa che a lavargli la testa si spreca solo pazienza, tempo e fatica. Urgerebbe una risposta da parte del sistema dell’istruzione e dagli esponenti del sapere, ma non è così semplice.

Il lavoro del conservatore anti-trumpista Tom Nichols sulla “Morte dell’expertise”, richiama fin dal titolo il cliché apocalittico delle retoriche conservatrici sulla “fine dei tempi”: per Nichols la fine dei tempi in cui il sapere aveva senso e peso è stata segnata da una diavoleria tecnologica, internet (segnatamente la mail, nella sua esposizione), che ha appiattito la piramide epistemologica mettendo insieme complotti e studi statistici, esperti e profani, ricercatori e ciarlatani in un unico, “liquido”, contenitore. Perfino l’immediatezza da fast-food con cui gli studenti dei college contattano – tramite mail, appunto – i loro professori, ridotti a commessi del centro commerciale del sapere, lascia poche speranze sulle nuove leve: praticamente, partono corrotti perché il mondo stesso è corrotto (il peccato originale). I loro professori, burnoutizzati e tramutati in zimbelli, per essere competitivi, devono condividere la pubblica attenzione con star di Hollywood che disquisiscono di medicina alternativa e strategie di politica estera in nome della loro fama. Peggio ancora le persone che, pur dotate di un titolo, parlano di temi che non conoscono, come i farmacisti che s’improvvisano medici o i giornalisti che fanno gli storici. Ormai, per Nichols, i college propongono solo programmi scadenti e allestimenti di marketing per rendere seducente l’offerta, di fatto propagano ignoranza sistemata e venduta come expertise. Colpa, per lui, degli amministratori avidi di rette. La sua analisi non arriva al sistema produttivo in quanto tale, di cui, l’ambito del sapere, è oggi un’appendice: dice di non voler chiudere il ragionamento in tragedia, ma alla fine rimane veterotestamentario e sostiene che agli Usa serve o una bella guerra o una bella crisi (l’apocalisse, il diluvio universale ecc.) per ritrovare la retta via.


Il filosofo Deneault, nella sua lettura psico-marxiana della questione, traccia e chiosa il carattere del “mediocre” come uomo del sistema, agghindato dalla sua certificazione di sapere, futuro ingranaggio di mega-macchine aziendali capitaliste. Di un capitalismo che è sovranazionale, deterritorializzato, globalizzato e, va da sé, cleptocratico. Il mediocre viene formato apposta con questa panatura di saperi in università dove, per “professore di successo”, s’intende qualcuno che ha ricevuto così tanti fondi (ovviamente privati) da proseguire le sue ricerche e non aver più tempo per insegnare. Il sistema di elargizione con cui il capitale tiene in mano la ricerca fa sì che, invece di insegnare, quei professori “appaltino” a dottorandi e assistenti il loro lavoro di docenza, per dedicarsi totalmente al lavoro sovvenzionato (che da questo momento è diretto al profitto). Sullo sfondo, il sistema di valutazione della comunità scientifica, che impone un certo numero di riferimenti incrociati e citazioni di articoli, il che implica che questi articoli siano prodotti a cottimo dai subalterni a ritmi sostenuti (più articoli, più citazioni, più impatto sul lavoro dei colleghi, più soldi). Un lavoro che somiglia alla produzione di salsicce anziché di sapere, puntualizza Deneault. Il sapere, che versa in queste condizioni perché affidato a questa logica, diventa la “formazione”, predefinita dall’inserimento nel mondo del lavoro e non più diretta a sviluppare una capacità d’analisi critica e un sapere non reso appetibile dalla sua semplicità. La realtà, però, ci dice che è proprio questo conformismo acritico e questo autoinganno sulla realtà a includerci nei quadri della dirigenza. In ciò sta il nocciolo della società prefigurata da Deneault: una società incardinata su un asse radicalmente nuovo, dove le strutture di senso sono dettate dalla riproduzione del modello capitalistico aziendale, dove gli studiosi non allineati sono privati di un linguaggio efficace e vagano smarriti balbettando utopie, dove ognuno è il “piccolo lobbista di se stesso”. Siamo quasi nel territorio del diritto alla conoscenza e dei diritti di quarta generazione. Invece, come ricetta finale, Deneault ci propone di rovesciare questo nuovo ordine: rivoluzione o morte. È evidente che non invoca l’apocalisse, aspira bensì a incarnarla.

Il mediocre, predisposto all’inserimento in un mondo del lavoro così connotato, è di fatto lo stupido di cui parlano Alvesson e Spicer nel loro studio sulle ripercussioni dello stupido in azienda. Particolarmente nel caso della leadership. Dirigenti che non sanno capire come viene recepito il loro comportamento (mancanza di analisi), che non sanno imparare dai loro errori (mancanza di riflessività), che sopravvalutano dei gesti irrilevanti in nome di un ottuso culto del leader (“Se prendo il caffè coi dipendenti e scherzo con loro mi crederanno aperto” è un esempio di “falso consenso”: non attribuirebbero lo stesso impatto a questo gesto se lo calassero su una segretaria), impiegati e quadri che smettono di porre questioni critiche sul loro lavoro per non interrompere “l’armonia aziendale” e non entrare nel mirino del capo (esempio di “ignoranza pluralista”): ciò che conta è un ottimismo stereotipato e la fiducia cieca in se stessi e soprattutto nella mission aziendale, nei riti a essa sottesi. Molti problemi non vengono sollevati e si accumulano, sfuggendo alla pianificazione degli enigmatici algoritmi. Inoltre, viene incoraggiata l’irresponsabilità dei dirigenti, che in questo modo possono dire “Mi dispiace, non lo sapevo” (e “…è una mia responsabilità, mi vergogno molto, farò ammenda, anche io ci ho rimesso” ecc. come abbiamo sentito di recente da Cambridge Analytica e da Facebook, ultimi arrivati del mea culpa autoassolutorio). In effetti, al leader fa comodo non sapere: senza questo autoinganno, dovrebbe riconoscere davanti a se stesso di aver deliberatamente ignorato i segni d’allarme, sarebbe un severo esame di coscienza. A quel punto dovrebbe sapere. Ma ignorare consente al leader di gestire il potere senza doverci riflettere di continuo, quindi senza perdere tempo. Ed è normale che non ci pensi: oltre a risparmiare tempo, sa che per la sua carriera è vitale scalare i gradi aziendali, quindi muoversi continuamente a ritmo, ogni due, tre o cinque anni per andare su un fiore più alto. Non vedrà neanche le conseguenze della sua ignoranza, deve essere solo ottimista e andare a ritmo lontano da lì: è ciò che viene insegnato. Poi, ogni tanto, capita che manager che non sapevano nulla di algoritmi, operatori della finanza affidatisi a bot, matematici che non avevano contato che la realtà non calcola, siano sorpresi dalla crisi del 2008, di cui nessuno di loro aveva previsto nulla: è da qui che Alvesson e Spicer iniziano la riflessione sullo stupido aziendale.
Lo stupido, così sinteticamente abbozzato, solleva almeno due quesiti: come si esce dalla metaignoranza? Che ruolo ha l’esperto, il sapiente, il non profano, il non mediocre, il non stupido?
Siccome non è possibile autoverificare la propria ignoranza o stupidità, solo un altro può farlo.

Purtroppo, l’appiattimento del sapere e la produzione di saperi posticci volti solo a far profitto, offrono all’ignorante i mezzi con cui continuare a ingannarsi sulla propria competenza. Questa parvenza di cultura, questa “cultura Kitsch” (nell’accezione di Kitschdata da Adorno1), lo rende impermeabile a ogni tentativo di discussione.
Naturalmente le disgrazie non vengono mai da sole. Capita che, così come un deficit di competenza illuda l’ignorante di sapere, anche un alto livello di competenza implichi una distorsione cognitiva: chi sa, proietta sull’altro le proprie competenze, tendendo a sottostimarle (se ha qualche successo, pensa sia fortuna e non farina del suo sacco: si sente un impostore e, infatti, questo autoinganno è detto “impostorismo”). Tolta la vanità della finta modestia, una persona competente tende a mettere in dubbio la propria competenza perché sa l’enormità di quanto ignora. Finisce così che tace chi dovrebbe parlare. Ma anche ammesso che ne sia consapevole, nessuno vuol passare per il saputello del gruppo (conservazione dell’armonia del gruppo) e nessuno vuol perdere il proprio livello di gradimento sociale e andare incontro al licenziamento criticando il capo. Del resto, arrivati a un certo punto, lo stupido non è detto che capisca o che il sapiente abbia abbastanza strumenti per spiegarsi (un vero peccato che l’istruzione superiore non fornisca certi strumenti): devono affidarsi l’uno all’altro. Senza tale fiducia, il sapiente, se è saggio, diventa a buon diritto – secondo l’espressione di Leo Strauss – “reticente” e si sottrae alle incomprensioni insormontabili del metaignorante.

E forse è meglio così: cosa dà il sapiente come sua massima conoscenza? “So di non sapere”, cioè so che l’ignoto è incalcolabile e la conoscenza ristretta e precaria. Questo è l’aspetto meno spendibile del sapere: il sapere come prudenza davanti a un limite, come moderazione. Di solito, invece, l’utilità della conoscenza si rivela quando, dinanzi a un evento imprevisto, restiamo a bocca aperta (non a caso l’etimo di stupido e stupito è lo stesso) e chiediamo al sapiente una spiegazione. Se tentenna, destabilizza e quasi dà l’impressione di voler tenere qualcosa per sé. Quando non ottiene le risposte che vuole, chi non sa di non sapere, è portato dalla propria ignoranza anche a crearsi delle teorie con cui tappare le sue falle di conoscenza: la teoria del complotto – basata proprio su “quello che non sappiamo/non ci fanno sapere” – è un esito naturale, insieme alle categorie misticheggianti il cui sapere è ineffabile. È il normale effetto di un’epoca, come la nostra, di forte espansione delle conoscenze: per ogni nuova cosa che si sa o inventa, automaticamente l’ignoto si allarga. Conoscere una nuova galassia ci espone solo a nuovi interrogativi e a pochissime, provvisorie, certezze, come che l’universo rimane per definizione “inesplorato”. A fronte di questa espansione di conoscenza e ignoranza, della specializzazione dei linguaggi e dei campi del sapere, della industrializzazione della coscienza critica e dei suoi strumenti, l’epistocrazia si sfarina al primo soffio di crisi: la paura – per il proprio sostentamento e la propria sicurezza – paralizza ancora di più il pensiero del metaignorante (e spesso pure del sapiente). Aggrapparsi a slogan, a teorie fantasiose e a distopiche politiche di controllo è il minimo. Una brutta aria per uno che coltiva il sapere, cioè il dubbio. Deve usare la dissimulazione dell’ironia, come Socrate, ma senza turbare l’opinione pubblica, per evitare la pena capitale. Ecco come, parlando di stupidità, si parla di sapienza e di stile: il sapiente diventa saggio quando, oltre a sapere, sa anche come, quando e a chi dire ciò che sa: come fa Senofonte nel Gerone, è meglio lasciare che il tiranno dica da sé quello che non va della tirannide.

1«[Ostentazione] il cui fondamento economico sarebbe da determinare. Pare di poter derivare quel tipo di rappresentazione dalla necessità di apparire degni di credito. Questa necessità potrebbe rinviare alla penuria di capitale durante periodi di espansione» (Prismi). Come i fiori di plastica rimpiazzano fiori veri che non ci si può permettere quotidianamente, così la cultura Kitsch è per chi non se ne può permettere una vera.

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