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Meno liste, più scuole

Nel catalogo di stereotipi di questa campagna elettorale, qualcuno ha osservato ironicamente che, chi per studio o lavoro non vive nel suo comune di residenza, chi non può permettersi il viaggio o è tagliato fuori dalla poca neve che le ferrovie non sanno gestire (quindi quegli studenti e quei lavoratori emigrati, in gran parte meridionali provenienti da piccoli centri, che hanno facilità d’accesso all’informazione ma non si riconoscono in nessuna formazione politica), non avrebbe potuto votare. Mentre, quel gran numero di pensionati, rimasti nei piccoli centri, essenzialmente informati dalla tv, sensibili all’aspetto della sicurezza e della stabilità, non avrebbero avuto nessun problema a farlo, vivendo nel comune di residenza e avendo il seggio a due passi.

Questo stereotipo è un ricalco di quello elaborato quando la Brexit sottolineò l’esistenza di due paesi, uno centrale-giovane-informato-europeista e uno periferico-attempato-disinformato-nazionalista.

Quasi un problema demografico, sintetizzato sui social dai Giovani del Pd di Pesaro: non c’è stato un calo di elettori del centrosinistra alle urne per astensione, sono morti.

Tuttavia, fin qui, la distinzione operata sembra un cliché, per quanto assonante: da un lato “i barbari”, come s’intitolava anche una celebre serie di articoli di Repubblica a tema decadente, e dall’altra i cittadini cosmopoliti, insieme a cui ci scappa ogni tanto un millennial, vittime angeliche della crisi economica che diventa crisi politica e democratica.

Il catalogo comprende altresì immagini: da un lato del tipico baby-pensionato, che fa un doppio lavoro ed evade le tasse, vota per la pagnotta e che dobbiamo immaginare perennemente impegnato a guardare una partita di calcio o un talk show, e dall’altro lato del giovane iperqualificato costretto a espatriare o ad accettare lavori sottoqualificati e miseramente retribuiti (se pure) in patria, che voterebbe una compagine progressista, europeista e riformista ad argine dei regimi che ci sono a sud e a est, dalla Libia alla Turchia alla Russia.

La discrepanza fra le due ipotetiche frazioni sembra irriducibile.

Boutade e stereotipi comunicativi a parte, c’è stato il facilmente profetizzabile risultato: l’affluenza più bassa di un’elezione politica. Non una tragedia, ma una flessione fisiologica. La pratica democratica porta il suo risultato maturo, l’astensione, che andrebbe bene se rappresentasse il raggiungimento di una soddisfazione media tale da non richiedere cambiamenti, ma, se ne parliamo in termini di rappresentanza, questo voto mostra (fra schede nulle, problemi, seggi chiusi e scrutinatori che danno di matto) una perdita quasi emorragica.

Se pensiamo che, su quasi 51 milioni di aventi diritto, i voti espressi validi sono poco meno di 33 milioni, vediamo la rappresentanza ridursi al 65%, che non è il 73% di affluenza rimbalzato nei media.

Eppure il riassetto è stato tale da far parlare di Terza Repubblica (sic), perché si è assistito a una mutazione di composizione nel partito più inclusivo d’Italia, quello di chi non si sente rappresentato dalla politica: molti di loro, soprattutto al sud, hanno votato per il M5s e per la Lega.

Abbandonati i convinti e i militanti a loro stessi, i leader progressisti hanno cercato di attirare i neutri, spostando lo stile delle offerte da hard a soft per acchiappare qualcosa in quel pubblico dell’ultimo minuto non ancora convinto dalle offerte politiche demolite da Cottarelli.

Mal gliene incolse: indipendentemente dai recuperati del Rosatellum, Pd e +Europa (il solo della coalizione a non avere uno zero prima della virgola) hanno sbagliato a tenere uno stile soft perché non hanno tenuto in conto degli “altri” non rappresentati dalla politica: non disinformati qualunquisti, ma in gran parte studenti a corto di prospettive, laureati, liberi professionisti, abitanti in grandi centri, liberal e, dulcis in fundo, ex elettori del centro sinistra; e i resti di un ceto riflessivo impoverito che “vota come i ricchi, il PD, per sentirsi ricco”, come scriveva sul Foglio del 5 marzo Antonio Pascale.

Il centrosinistra, questa volta, più che per cronica tendenza alla divisione della sinistra, perde consensi in mancanza d’avversari che lo compattino come Berlusconi a suo tempo: gli tocca una balsamica e allegra opposizione. Volendo, è l’ago della bilancia fra due schieramenti che non possono coalizzarsi per non essere indistinguibili, ma avrà sempre bisogno dei suoi indecisi di riferimento, gli “altri”.

Il migliore tentativo di coinvolgere questi “altri” in campagna elettorale è stata la comunicazione di Emma Bonino, la quale – anche quando ospitata nei contenitori più mainstream – è riuscita a fare un po’ di pedagogia e a snocciolare due numeri in modo chiaro per tutti: così è cresciuta nei sondaggi, riducendo al silenzio abili flamer come Belpietro e ospiti nel velodromo di “Dalla vostra parte”, nonché Sallusti e Travaglio in jam a “Otto e mezzo”, sacrificando il battibecco al dialogo. Tuttavia qualcosa non ha funzionato fino in fondo. Cosa, se escludiamo il suddetto fattore demografico?

Una volta (9/2014), in questa rubrica, si diceva dello strano che faceva vedere Franceschini (stroncato al voto nella sua Ferrara) vicino a un capoccia di Google perorare la causa degli archeologi del sapere, quand’era ministro.

Emma Bonino, in questa campagna elettorale, anche se non animata da nessuna furia distruttrice del liceo classico, ha detto che ci servono più ingegneri.

Prendo questo come punto di partenza, perfettamente opinabile e personalizzabile, per dire che il Pd ha meritato quello che ha avuto, come una terapia d’urto, mentre i radicali sarebbero dovuti andare da soli, e forse – qualcuno intenzionato a punire il PD renziano – avrebbe potuto distogliere la propria preferenza dalla Casaleggio o dal niente per darlo a +Europa. Forse. Perché poi, stare con uno più grosso, ha comunque i suoi vantaggi.

I radicali erano mal posizionati quando stavano con Berlusconi come lo sono oggi col Pd (utilizzo “mal posizionati” perché l’ho letto su Facebook ed è efficace: fa sembrare il parlamento uno scaffale di supermarket e i partiti scatole da mettere nel modo più “giusto”, cioè più appetibile per l’acquirente), insomma i radicali sono sempre a disagio in coalizione e la Bindi lo espresse in un immortale apoftegma, ma è il bisogno elettorale che li spinge. Il che equivale a cucinare alla amatriciana la loro autocelebrata “alterità”.

Il risultato, rispettabile anche se non soddisfacente, apre una domanda per i radicali sulla loro inclusività.

La loro naturale propensione per il livello verticistico della politica, in assenza di consenso elettorale, li vedrebbe bene a mettere a frutto il loro sapere politico unico in Italia e con pochi confronti fuori: diventare una scuola (istituto, club, fondazione, osservatorio, centro di ricerca, l’imbarazzo consiste nel decidere) di politica, che certo è cosa poco attiva e la militanza è essenziale per i radicali.

Se la politica attiva è la sola alternativa, bisogna ricominciare dal territorio e dalla politica di prossimità, con quella persistenza che è un loro marchio di fabbrica. Magari in una delle due città che hanno dato il risultato migliore, Milano (7,61 %) o Torino (6,59%), tenendo conto della grande differenza dei risultati regionali (il 12,07% in Lombardia, 7,98% in Piemonte).

Ognuna porterebbe considerazioni diverse, come che a Milano c’è Marco Cappato, uno dei radicali più mediatici e presentabili, che la città ha una scelta politica molto ampia e che ha avuto buoni sindaci di recente, che Torino ha sperimentato una sindaco casaleggese, il cui partito è stato mazzolato alla Camera dai torinesi (dato ricorrente delle amministrazioni casaleggesi come Roma e Livorno), che forse qualcuno in città è pronto per guardare altrove (cosa che Roma non sembra manifestare), che è grata a Silvio Viale per la RU486, che il presidente della Regione Chiamparino è un sostenitore di +Europa.

Ponderazione complessa e decisione difficile, specie in vista delle prossime regionali e delle più prossime europee, ma non ci sono molte opzioni al momento.

Il salto di qualità sarà dato dalla prontezza con cui s’innescherà il processo decisionale.

Grande è la confusione sotto il cielo e D’Alema ha avuto il 3,8% a Nardò.

Non resta che una domanda da farsi, forse un po’ complottara: chi è la mente politica che ha pensato la strategia con cui Casaleggio e associati è riuscita a recuperare parte del serbatoio di voti del clientelismo al sud?

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