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Il 30 gennaio Matteo Salvini si è reso responsabile di una performance in linea con quello che potremmo definire un dadaismo-punk: invitato alla trasmissione Il dodicesimo presidente in onda su

Rai3, condotta da Federica Sciarelli e Corrado Augias, ha preso a commentarla in tempo reale su Twitter criticandone la monotonia. È già sublime criticare il programma in cui si è ospiti, ma cantare all’improvviso Il cielo in una stanza in diretta è geniale (pare che avesse scommesso che se il suo post avesse raggiungo un certo numero di “mi piace” l’avrebbe cantata). Travaglio lo definisce raggelante, ma solo perché la performance ha raggiunto il suo scopo: trollare la trasmissione dall’interno e in diretta, nuova strategia di comunicazione politica.

Se il trolling è una pratica con delle regole e delle costanti peculiari, il suo perpetratore (il troll) è una psiche individuale che si ritrova miracolosamente a condividere le stesse pratiche con estranei totali: il troll sionista, leghista o comunista e i loro opposti parlano la lingua universale del trolling. Ha dell’ecumenico, per essere un mondo a parte e oscuro, l’equivalente web delle grotte di Bin Laden.

Il trolling è una pratica da fare in incognito, aggirando le sempre più stringenti regole che vogliono inchiodare le nostre identità burocratiche e biologiche ai nostri avatar virtuali, parla fluentemente e senza accento gli idiomi culturali e identitari di chi prende di mira, è poliglotta sotto ogni profilo, scatena fiammate d’ira (flaming, in gergo) di cui è protagonista o spettatore ma sempre uscendone vincente perché lo scopo è l’ira in sé, non prevede dunque sconfitte, è a sua volta una pratica identitaria che non si può imitare o mettere in crisi perché è essa stessa imitazione e crisi dell’identità.

Conversazioni che sarebbero potute essere tranquille e pacate dimostrando così che internet non è la fonte dei mali della nostra epoca, appena vengono trollate si trasformano in un inferno dove l’ira latente a tutte le conversazioni tranquille e pacate si scatena: improvvisamente le mediazioni fatte sembrano eccessive e le differenze minimizzate gigantesche, il pilastro di ogni contatto umano – il “cum-versare” – si capovolge in “ad-versare”. Da questo punto di vista, anche se salutare per l’evocazione dei rimossi, rischia una caduta reazionaria: gli stranieri diventano estranei e il diverso diventa perverso. Il troll è la differenza perennemente autonascondentesi che poi, nel bel mezzo del convivio, anima negli altri la presa di coscienza della propria irriducibile differenza: porta in evidenza che, per quanto ci sforziamo di comunicare, rimarremo sempre delle individualità egoiste e quindi è inutile chiacchierare tanto se poi non ci uniamo. Qui il trolling sembra addirittura diventare un nichilismo messianico, allude a una palingenesi tragicamente impossibile con l’altro e dunque a una perdita di scopo di tutto ciò che è appena più concreto come la semplice empatia.

Dobbiamo però notare che questa empatia contro cui il troll si scaglia, sceglie di manifestarsi in luoghi insalubri, poiché i forum di discussione dove più ci si identifica nel discorso dell’altro sono quelli ideologici, tanto politici quanto religiosi o mediatici. Nel culto secolare o divino ci s’incontra coi propri simili, ma sempre per una ragione irredimibilmente iniqua: l’adorazione degli idoli. Inginocchiati dinanzi a una maglietta del Che, a una madonna piangente, a un centravanti, a una cantante o tronista o ex qualcosa si raccolgono gli utenti del web dando un abietto ritratto di sé. A questo punto il troll interviene, messianico è dire poco, per sovvertire il culto blasfemo dall’interno e dimostrare che non si sta celebrando il vero dio. Il problema è che questo vero dio non ti dice chi è e rimane solo la sua orma di ira: l’assenza della fusione delle anime.

Insomma il trolling ha la struttura tipica di ogni fanatismo mistico, di ogni setta di iniziati, ma il suo dio non è sperimentabile, non ha un suo regno da promettere (Salvini non può fare meglio della Sciarelli): può solo liberarci dal nostro, con tutto quello che ne consegue. È una liberazione senza sollievo verso l’irrimediabile incompletezza delle cose, delle verità, delle relazioni. Questo buco dell’individuo contemporaneo è stato approfondito da molti autori; come dice Kapuściński in L’altro, «l’unico personaggio sulla scena del mondo è la folla, la cui principale caratteristica è di essere anonima, impersonale, priva di identità e volto. L’individuo si è perso nella folla, è stato inondato dalla massa e su di lui si sono richiuse le acque» (Feltrinelli, 2007, p. 54). Non è casuale che sia proprio internet a vedere dispiegarsi il trolling: appena l’individuo è inserito in una massa come in una vasca di colla comincia a sentirsi soffocare dal suo solidificarsi e cerca di romperla per respirare. Ecco una buona immagine del primo istinto del troll, a cui si affianca un secondo istinto: vedendo che l’unico modo di fuggire alla massa è rimanere soli, capisce che non ci riuscirà mai e che quindi non potrà uscire dalla colla, così prende gusto nel rompere fine a se stesso. Ciò non lo libera, ma lo tiene un po’ a galla. Il distruggere diventa un modo di vivere, con tutta l’ambiguità lessicale che solleva. I troll sono soli come tutti quelli che vedono dio. Così il disagio dell’anonimo e solitario singolo diventa disagio della comunità, creando il paradosso che lo vuole sia così inserito nella comunità che ovviamente espulso da essa. È sempre sulla soglia, come un fantasma che ci ricorda la caducità, un’ombra che ci riporta al nostro peccato e ci riempie di astio nei suoi confronti. Ma senza di lui potremmo finire col credere che le favole che ci raccontiamo sul senso della nostra vita siano vere, potremmo rischiare di prendere sul serio una trasmissione come Il dodicesimo presidente. E qui sta il paradosso: talvolta, il prezzo da pagare per essere lucidi, è la compagnia di persone come Matteo Salvini.

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