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Abstract

Il saggio segue alcune delle tappe del libro “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares per trarne delle conclusioni riguardo alle dinamiche di autoinganno e autofinzione. I risultati salienti dell’analisi portano l’attenzione sull’ipotesi che autoinganno e autofinzione siano meccanismi che cooperano nel quadro di un adattamento alla Cosa (Das Ding, nel senso lacaniano), creando l’autofinzione del soggetto a seguito del suo autoinganno, il quale è di matrice tendenzialmente narcisistica. Tale nesso è stabilito dall’ordine con cui prima il soggetto si autoinganna sull’esistenza del proprio Io e, in seguito, autofinge il proprio programma esistenziale.

Keywords: Morel, Casares, autoinganno, autofiction, narcisismo

From the absence to invention of itself

The essay follows some steps of the novel “The Invention of Morel” by Adolfo Bioy Casares to draw conclusions about the dynamics of self-deception and autofiction . The main results of the analysis lead the attention on the assumption that self-deception and autofiction are mechanisms that cooperate in the framework of an adaptation to Das Ding (Lacan), setting the autofiction of the subject as a result of his self-deception, that became tend from narcissism. That link is established by the order in which first the subject deceive itself about the existence of his Ego and, later, autofictions own existential program.

Keywords: Morel, Casares, self-deception, autofiction, narcissism


Dalla mancanza all’invenzione di sé

61 (33)

“Pensando, mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi mi sono moltiplicato. Vivo di impressioni che non mi appartengono, dissipatore di rinunce, altro nel mio essere io”

62 (34)

“Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi”

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine

“Tutto il suo essere non era che una maschera”

“Egli era l’obliterazione di se stesso”

Vladimir Nabokov, Fuoco pallido

Metodi d’autoinganno

Nel documentario Le dinosaure et le bébé (1967) Lang e Godard s’intrattengono alcuni momenti sul modo di costruire le scene dei loro film.

Scopriamo che Lang è molto meticoloso, fa schemi precisi dell’ambiente in cui girerà e della scenografia di cui avrà bisogno, arriva sul set sapendo bene come si muoverà la macchina da presa e solo a quel punto si concederà – se sarà il caso – il lusso di qualche improvvisazione. Al contrario, Godard non riesce a immaginare come girerà la scena fino a quando non guarda i luoghi e non si arriva a una sorta di ispirazione armonicamente frutto di coincidenza e finalità.

Allargando un po’ la ricognizione si può facilmente osservare come le filmografie di questi due registi siano differenti. Basti prendere a emblemi i film mostrati nel documentario, cioè M – Eine Stadt sucht einen Mörder (1931) per Fritz Lang e Le Mépris (1963) per Jean-Luc Godard. Da una parte il turbamento dell’ordine per una minaccia oscura e vischiosa (il sospetto generalizzato, rappresentato dalla presenza del Mostro nella tranquilla cittadina di Dusseldorf) e dall’altro lo spettro strisciante di un disamore peculiarmente definito disprezzo (dal lemma moraviano).

Certo entrambi utilizzano registri vari, e Lang non è avaro di notazioni psicologiche e Godard non è schizzinoso sul fattore “intrigo”, ma al momento proviamo a prenderli come idealtipi.

L’indizio che se ne trae è: da una parte il metodo come barriera difensiva contro l’errore sempre in agguato, dall’altra l’assenza di metodo come strategia per produrre qualcosa di quanto più prossimo all’emozione estemporanea. Il tentativo di non autosabotarsi e quello di non autocensurarsi: due metodi da autoinganno, laddove “da” ha valore di separazione, di “tenersi lontani dall’autoinganno”.

Ma per rovesciare questi metodi nel loro opposto non serve molta fatica. Freud, analizzando il caso di Schreber, spiega in quali modi è possibile contraddire l’affermazione “Io (uomo) amo lui (uomo)” (Freud, 1992, p. 503.): “non lo amo, lo odio” (delirio persecutorio), “non amo lui, ma lei” (erotomania), “non sono io, è lei che ama l’uomo” o al femminile “non sono io che amo le donne. È lui che le ama” (delirio di gelosia). Naturalmente le definizioni fra parentesi sono di Freud e il testo fra virgolette si volge in base al genere, essendo per Freud l’omosessualità il motivo della paranoia nello specifico. Queste tre formule (cui Freud aggiunge la quarta “io non amo affatto, non amo nessuno” dunque “amo solo me stesso” chiaramente megalomanica), per il cui chiarimento si rimanda direttamente al testo freudiano, ci sembrano particolarmente utili come esempi in cui il soggetto si nasconde qualcosa di troppo compromettente per poterci convivere. Come osserva Freud, “le idee deliranti di gelosia contraddicono il soggetto, quelle di persecuzione contraddicono il vero e l’erotomania contraddice l’oggetto” (Ivi., p. 505): anche questi sono metodi da autoinganno, ma qui “da” ha valore di comportamento, cioè “metodi da perfetto autoinganno”.

Parafrasando il giudice istruttore Porfirij Petrovič, ci si può autoingannare di non starsi autoingannando e autoingannarsi di starsi autoingannando per non autoingannarsi. Difficile districarsi.

Otras ficciones

L’autofinzione attecchisce sul reale e si serve di tutte le sue connessioni per non farsi trovare scivolando di sfumatura in sfumatura, inoltre può vivere interstizialmente grazie a una fisiologia ben più articolata dell’autoinganno. Infatti, se quest’ultimo è una pura e semplice negazione o omissione a proprio uso e consumo, l’autofinzione dispiega tutti i mezzi del dire in un drappello tentacolare e organizzato. Nel caso dell’autoinganno c’è una realtà a cui appellarsi, nell’autofinzione la realtà è messa in discussione.

Attorno a questo elemento così semplice ed evanescente s’è innescato un fervente dibattito culturale che mostra il tipico sintomo dell’inconcludenza: utilizzando un registro poetico si riesce a parlarne meglio che non usando quello logico-dimostrativo. In effetti non è facile menzionare un intervento accademico o erudito sull’autofinzione che fughi le perplessità meglio di come fa il Mostro di Lang, poeticamente, nell’arringa a propria discolpa: “Quando cammino per le strade ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo, ma sono invece io che inseguo me stesso. Silenzioso, ma io lo sento. Spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora voglio scappare, scappare, ma non posso fuggire! Devo uscire ed essere inseguito. Devo correre, correre per strade senza fine. Voglio andare via, ma con me corrono i fantasmi di madri, di bambini. Non mi lasciano un momento, sono sempre là, sempre, sempre. Soltanto quando uccido, solo allora… E poi non mi ricordo più nulla. Dopo, dopo mi trovo dinanzi a un manifesto e leggo quello che ho fatto. E leggo, leggo. Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi sento urlare una voce, e io non la posso sentire!”.

In ogni avatar c’è un po’ di realtà, in ogni resa di sé c’è un po’ di sé. Il Mostro descrive perfettamente la sensazione di inseguimento, la necessità di fuggire da sé e dalle proprie voci. E così va in un posto dove non può sentirsi, dove può dimenticarsi chi è. Lui uccide vittime in cui si identifica e prova l’ebbrezza di essere potente come un dio. Più modestamente gli autori uccidono se stessi nelle loro biografie e sfidano il biografo a mostrarsi più abile di quanto hanno dimostrato di essere loro, sennò come altro potrebbero ostentare la propria superiorità?

Ciò vale tanto per i padri nobili custoditi nei pantheon dell’immortalità (Contini instillò il dubbio che Dante fosse un personaggio della Divina Commedia e il Casanova che si muove nelle Memorie non è il Casanova che ha sedotto un certo numero di signore) quanto per le esperienze più “irregolari” dell’oggi (in cui autori “di genere” come Andrea G. Pinketts o Pierluigi Felli alterano sistematicamente la propria biografia nei paratesti dei loro libri confermando che «l’autobiografia è sempre autofinzione» (Miller, 2011, p. 18)).

Lo spazio latamente epitestuale delle opere è sempre più brodo di coltura di autofiction talvolta così perfette da non aver nulla da invidiare alla realtà e del tutto in grado d’irridere l’afflato saintebeuveiano in cui può incappare chi non ha ben presente i molteplici stati dell’essere – l’autofictioner sa che spesso basta essere sinceri fino in fondo per creare un’autofinzione, per questo “inganno” non può esserle completamente sinonimo.

Una simile confusione sorge perché con l’inganno ha qualcosa in comune, come esistere per gli altri ed esistere pur sapendo che la verità condivisa è un’altra. Chi autofinge sa benissimo quale sia la verità visto che solo “chi non sa mentire, non sa che cos’è la verità” (Nietzsche, 1968, p. 338). Egli decide però che la verità va corretta e, al fianco della finzione originaria con cui gli altri lo identificano in un ben preciso “io”, vanno poste altre finzioni che gli consentano di non sentirne la pressione.

Un caso dei più affascinanti sull’argomento è senza dubbio rintracciabile in un libro limpidamente geniale intitolato L’invenzione di Morel e scritto da Adolfo Bioy Casares, che fra le molte finzioni era anche amico di Jorge Luis Borges e coautore con lui delle avventure poliziesche di don Isidro Parodi (a cui basta una A per essere la parodia del poliziesco).

Moreau, Morrel, Morel

Echi si spandono fra libro e libro. Inevitabilmente, se si parla di finzioni.

Nell’introduzione che Borges pone in capo al libro dell’amico, il discorso si apre con una distinzione fra romanzi d’avventura e romanzi “psicologici”. Si capisce subito che l’argentino propende per quelli d’avventura, in cui tutto dev’essere calcolato e scandito ritmicamente, mentre quelli “psicologici” sono informi e più soggetti a sciatteria.

Si riproduce la distinzione che facevamo poc’anzi fra meccanismo di precisione alla Lang e macchina associativa alla Godard e non sorprende che Borges prediliga un sistema di controllo come la struttura del romanzo d’avventura e che del libro dell’amico elogi proprio il plot.

Il meccanismo di precisione della trama d’avventura consente di autofingere con ogni rigore, poiché – se è vero che, come già detto, in ogni resa di sé c’è un po’ di sé – non si può improvvisare l’autofinzione, non la si può affidare al caso perché, proprio come il romanzo d’avventura, “è un oggetto artificiale che non tollera nessuna parte ingiustificata” (Borges, in Bioy Casares, 1966, p.16).

L’errore, infatti, è di ritenere che l’autofinzione sia un piccolo delirio o, appunto, un inganno. Ma ciò è fallace, almeno quanto confondere il fantastico col soprannaturale, come giustamente asserisce Borges nel giro di poche righe.

L’introduzione data 2 novembre 1940. Il duplice numero dei morti.

Curiosamente sono due anche i morti dalle cui ceneri s’inasta il Morel di Bioy Casares: il primo lo evoca Borges stesso alla fine dell’introduzione ed è il dottor Moreau, il secondo lo evochiamo adesso ed è il Pierre Morrel del Conte di Montecristo.

Moreau gioca sul doppio registro di scienziato pazzo e di pioniere della medicina, crea mostruose creature frutto della sua immaginazione che contemporaneamente sono i suoi sforzi per il progresso della scienza: praticamente autoinganno e autofinzione. Morrel viene a sapere che il suo bastimento Faraone è affondato, ma vedendolo entrare in porto non esita a credere che quello sia veramente il Faraone e che lui è un miracolato anziché la vittima di un benefico raggiro come in effetti è: anche in questo caso autoinganno e autofinzione (stavolta il fenomeno assume lo status di miracolo perché così si chiama un’autofinzione allorquando incontra un autoinganno in una persona sana di mente).

É una bizzarra coincidenza che anche le vicende dell’isola del dottor Moreau si chiudano con una barca provvidenziale tanto quanto quella di Morrel o di Verga, governata da due scheletri, che riporterà il narratore Edward Prendick in salvo in Inghilterra: anch’essa, come il Faraone, è densamente fantasmatica e, per Prendick, decisamente miracolosa.

Arriviamo finalmente al Fuggitivo protagonista del Morel, giunto anche lui miracolosamente su un’isola con una barca provvidenziale e di lì in poi anche lui consegnato al fantastico e al fantasmatico.

L’invenzione del Fuggitivo

Il nostro protagonista si palesa fin da subito per quello che la narrazione lo destina a essere: un Fuggitivo, un uomo braccato che sussulta a ogni rumore insolito. A fargli da contraltare, un Curatore che dal piè di pagina delle note fa sentire impercettibilmente la propria incontrovertibile superiorità.

Sia detto per inciso che questo stratagemma narrativo è ben lungi dal produrre un effetto di realtà, dato che di fatto amplifica la narrazione usando un debrayage contraffatto. Siamo al primo inganno mascherato da verità, ma una verità che ammicca spudoratamente al falso d’autore: bellissima autofinzione, in cui Bioy Casares si maschera con l’idea di autore che hanno i suoi lettori (che non sono forse frutto di autoinganno?).

Tornando al Fuggitivo, possiamo subito esser certi del suo complicato rapporto col futuro dall’affermazione “debbo temere la speranza” (Bioy Casares, 1966, p. 37. Da ora citato solo coi numeri di pagina), in cui si palesa l’imprendibile deserto che ha dinanzi un uomo che sente su di sé il peso d’una condanna al patibolo. Infatti si rifugia nell’edificio sull’isola (il museo) per continuare la latitanza e, nel frattempo, mette anche a posto l’acquario, ripulendolo dai pesci in putrefazione.

Anche il rapporto col presente è poco sereno, minacciato fisicamente dalle alte maree e dall’inospitalità dell’isola fittizia di Villings e psichicamente dall’arrivo improvviso di astrusi turisti su cui cerca di autoingannarsi dicendosi che “forse sono tutte allucinazioni” (p. 40).

Costoro sono “eroi dello snobismo (o pensionati di un manicomio abbandonato)” (p. 42) che fanno traballare la sua anima già scossa da stenti, solitudine e costante paura.

Ma fra queste persone c’è anche una donna, che diventa indispensabile per lui, al punto da fargli pensare che “forse tutta quest’igiene di non sperare è un po’ ridicola” (p. 43).

Naturalmente da ora in avanti si affiancano alla paura altri sentimenti, tendenzialmente di stupore per il comportamento disinvolto dei villeggianti su un’isola così infida e di amore e gelosia per la donna.

Arriva a mettere a repentaglio la sua stessa vita per parlarle, spuntandole dinanzi all’improvviso mentre guarda il tramonto, ma riscuote solo la più perfetta indifferenza: “Mi spaventa il suo coraggio. Nulla fece capire che mi avesse visto. Neanche un battito di ciglia, neanche un leggero sussulto” (p. 44).

Di qui in avanti i suoi pensieri sono catalizzati da costei, che col semplice distacco riesce a imporgli la propria superiorità, a renderlo scodinzolante e affezionato. C’è bisogno di leggere il libro per rendersi conto delle doviziose interpretazioni di cui è capace il Fuggitivo per capire di che natura sia la psicologia che produce quel distacco. Molto simili, se ci si pensa, a quelle che ogni innamorato fa d’ogni dettaglio della persona amata.

Un attimo prima scrive “Quando la vidi abbandonare il libro e alzare lo sguardo, pensai: ‘si prepara a interpellarmi’. Ma non lo fece. Il silenzio aumentava, ineluttabile; eppure, senza ostinazione, senza alcun motivo, rimasi zitto. Nessuno dei suoi compagni è venuto a cercarmi. Forse lei non avrà parlato di me; forse li innervosisce il fatto che io conosca l’isola (per questo la donna ritorna ogni giorno, simulando casuali incontri amorosi). Non mi fido. Sono pronto a sventare la congiura più silenziosa” (p. 48) e un attimo dopo “non credo di aver insultato questa donna, ma forse sarebbe opportuno placarla. Che si fa di solito in queste circostanze? Si invia un mazzo di fiori. È un progetto ridicolo… ma i progetti ridicoli, quando sono umili, arrivano in fondo al cuore” (Ibidem).

Medita di dedicarle dei versi e li corregge più volte fino a ottenere “Hai tolto il sonno, qui, alla mia morte” (p. 52) e lo “rallegra l’idea di essere un morto insonne […] il gusto di presentarmi come un ex-morto” (p. 53).

Ma tutto il suo contorto romanticismo è sotto lo scacco dell’impassibilità di lei: “Oggi la donna ha voluto farmi sentire la sua indifferenza. Ci è riuscita. Però la sua tattica è inumana. Io sono la vittima; tuttavia credo di vedere la questione in modo oggettivo. È venuta con l’orrendo tennista. […] Mi nascosi subito. Non so se lei mi vide, immagino di sì, perché in nessun momento ebbi l’impressione che mi cercasse con lo sguardo” (p. 56).

Tutto il rapporto con questa donna, in grado di ridargli speranza e di fargli rimettere in gioco la vita, è un autoinganno dove lui si fa convinto che lei lo abbia visto perché non lo cerca con lo sguardo.

Interpretazioni sottili e acuti ragionamenti, coerenti col profilo di uomo colto che ci viene presentato all’inizio della narrazione, non lo salvano però dall’autoingannarsi, anzi, gli facilitano il compito, come dicevamo prima sugli schemi di Lang (barriere) e sulla parafrasi di Petrovič (fallimento delle barriere): ragionamenti che portano a non vedere con la convinzione di vedere più di tutti, come i paranoici di Gabbard. Non siamo lontani dall’anamorfosi.

Finalmente, mentre lei e il tennista parlano (p. 57), scopre il suo nome: Faustine. Anche del tennista intende il nome: Morel. Se nel secondo caso è legittima la flemma, nel primo sembra un’omissione sospetta che al Fuggitivo non affiori alla mente un richiamo goethiano. É evidente che non se ne accorge perché è già nel “cerchio dell’inganno che al momento giusto fa sorgere la dimensione dell’amore” (Lacan, 2003, p. 131).

Spia anche gli altri e ode i loro discorsi, in cui coglie allusioni a se stesso senza che mai nessuno ammetta di averlo visto e cerca di darsene conto con inferenze più o meno sensate (p. 60).

È talmente preso dai suoi sentimenti e dai suoi ragionamenti da non cogliere proprio quell’unica frase che può dargli una chiave interpretativa, quando Morel conversando con Faustine sulle rocce da cui si vede il tramonto menziona “L’influenza del futuro sul passato” (p. 61). Un simile accenno scuoterebbe il Fuggitivo se non fosse così distratto dalla gelosia.

Michael Dummett pose il problema non troppo diversamente in Far accadere il passato: “Mediante le nostre azioni possiamo influire sul futuro: perché allora non potremmo con le nostre azioni influire sul passato? La risposta che viene subito in mente è questa: non è possibile modificare il passato […] questo è l’atteggiamento della teologia ebraica ortodossa nei confronti della preghiera retrospettiva. È un’empietà pregare perché qualcosa non sia accaduta, perché anche se non ci sono limiti al potere di Dio, Egli non può tuttavia fare ciò che è logicamente impossibile; è logicamente impossibile alterare il passato e quindi formulare una preghiera retrospettiva è prendersi gioco di Dio chiedendogli di compiere un’impossibilità logica” (Dummett, 1986, p. 207).

Quindi, in sostanza, Morel ha ipotizzato una blasfemia, e ciò lo scrittura di diritto per la parte di Mefistofele e leggendo il libro sarebbe agevole convincersene.

Usiamo a ragion veduta un frasario teatrale perché è il Fuggitivo stesso a sfoggiarlo: “Lentamente nella mia coscienza, ma puntuali nella realtà, le parole e i movimenti di Faustine e del barbuto coincisero esattamente con le loro parole e i loro movimenti di otto giorni prima. L’atroce eterno ritorno. […] Pensai di aver fatto una scoperta: nei nostri atteggiamenti ci devono essere inaspettate, costanti ripetizioni. È stata l’occasione favorevole che mi ha permesso di accertarlo. Essere il testimone clandestino di colloqui diversi delle stesse persone, non capita spesso. Come a teatro, le scene si ripetono” (p. 62).

Questa considerazione lo avvicina a Erving Goffman allorché sostiene che “quando un individuo o un attore interpreta, in occasioni diverse, la stessa parte di fronte allo stesso pubblico, è probabile che ne sorga un rapporto sociale” (Goffman, 1969, p. 26) e che “un’équipe può essere definita come un insieme di individui che debbono collaborare per il mantenimento di una certa definizione della situazione” (Goffman, 1969, p. 122).

Ma per il Fuggitivo assume subito un altro senso: “temevo che questa scoperta non fosse che il semplice effetto di un languore nei miei ricordi, oppure del confronto tra una scena reale e un’altra semplificata dai particolari dimenticati. Più tardi, con urgente collera, sospettai si trattasse di una rappresentazione burlesca, di uno scherzo destinato a me” (p. 62-63). La collera lo spinge a cercare vendetta e si para dinanzi a Morel rivolgendogli una frase di scherno. Lui nemmeno lo degna di uno sguardo. Quel fallimento lo getta nello sconforto, specialmente notando che l’espressione del viso di Faustine era rimasta serena. “La sua calma mi atterrisce ancora. Da quel momento fino a oggi pomeriggio sono stato tormentato dalla vergogna” (p. 64). Decide di andare a inginocchiarsi ai suoi piedi per implorarne la benevolenza, così sale dal suo nascondiglio silvano fino al museo-abitazione sul colle per espletare “una scena di suppliche melodrammatiche. Sbagliavo. Quel che succede è inspiegabile. Il colle è disabitato” (Ibidem).

Ispeziona la costruzione e scopre che il cibo e gli abiti da lui lasciati lì venti giorni prima sono in posa e stato identici a come li ricorda. Grida il nome di Faustine senza ricevere risposta e allora rimette in moto il meccanismo di precisione del suo ragionamento: ricorda di aver assaggiato nuove radici e che gli indios del Messico ne spremono alcune per ottenere un succo che procura deliri per vari giorni. “Poi ricordai, incredulo, la mia condizione di fuggiasco e il potere infernale della giustizia. Forse era tutto una trappola smisurata” (p. 65).

Quest’ennesima paranoia lo annichilisce togliendogli anche la voglia di morire: “Lo sforzo indispensabile per suicidarmi era superfluo, poiché, scomparsa Faustine, nemmeno mi restava l’anacronistica soddisfazione della morte” (p. 66). Il suo rapporto con la morte è contraddittorio come quello con la solitudine e l’invisibilità: non vuol scoprirsi ma vuole che lo notino, è costretto alla solitudine ma non pensa mai concretamente a risolverla.

Tuttavia l’improvvisa calma gli consente di mettere a fuoco le stranezze di quella situazione: com’erano arrivati? Come se n’erano andati? Com’era accaduto concretamente il tutto?

Ma non passa molto tempo che gli ospiti ritornano e lui è deciso a capire. Però non è in grado di reggere la tensione: ben presto la serenità olimpica e sovrumana con cui tutti sembrano non accorgersi di lui (che pur nascondendosi nell’edificio non riesce a non commettere pericolosi errori che potrebbero tradirlo) lo destabilizza. Fissa l’acquario in cui nuotano di nuovo pesci vivi e splendidi come dovevano essere quelli di cui la putrefazione gli aveva imposto di disfarsi.

Entra a poco a poco in una dimensione completamente incomprensibile, a cui non manca mai di trovare nuove motivazioni che la puntellino a cospetto della ragione, perché è un solo pensiero a muoverlo e dargli energia: Faustine. “Per quel corpo interminabile, per quelle gambe troppo lunghe, per quella sciocca sensualità, io rischiavo la calma, l’Universo, i ricordi, l’ansia così vivida, la ricchezza di conoscere le abitudini delle maree e più di una radice inoffensiva” (p. 71-72).

Metodi d’adattamento

Abbiamo tentato fin qui di descrivere lo straordinario autoinganno a cui il protagonista di Bioy Casares si è sottoposto per non ammettere la verità più inaccettabile di tutte: quella di essere sempre solo. È la solitudine, con le sue sempre più pressanti Spaltung parentetiche (l’invisibilità e la morte), il marchio di questo personaggio sottratto alla distinzione di vero e falso, e ciò ci ricorda che la ragione è anche parto di una routine goffmaniana di paragone con l’altro.

Tuttavia – e in questo risiede la genialità de L’invenzione di Morel – è ben altro il vicolo cieco che al Fuggitivo toccherà imboccare a dissennata velocità coi freni guasti. Per parlarne occorrerà slittare fino all’ultimo terzo del libro, dove ogni cosa viene chiarita e i pesci putrefatti tornano a essere vivi e splendidi.

Per una catena di circostanze semplice e concisa (la concisione, sembra dirci questo libro, è da preferire alla brevità, da cui si distingue per la capacità di evocare l’universo), il Fuggitivo si ritrova ad assistere di nascosto al discorso in cui Morel spiega ai suoi ospiti il motivo di quella settimana di villeggiatura che aveva loro offerto sull’isola. Si scoprirà ora in cosa consiste la sua invenzione.

Il contenuto è confuso, fra gli astanti corrono controverse passioni e stati d’animo. La punta dell’indignazione si tocca quando Morel confessa di “avervi fotografati senza il vostro permesso. È chiaro che non si tratta di una fotografia come le altre; è la mia ultima invenzione” (p. 95). Naturalmente non fa piacere questo retroscena, ma Morel continua il suo discorso dattiloscritto inoltrandosi lungo considerazioni sulla tecnica e sulla scienza, soprattutto sul “quadro scientifico per annullare le assenze” (p. 98).

Racconta i suoi sforzi volti “a cercare onde e vibrazioni mai raggiunte, a ideare strumenti per captarle e per trasmetterle” (p. 99) e la sua “ipotesi che le immagini abbiano un’anima” (p. 103) e infine si capisce che scopo della sua invenzione è la riproduzione assolutamente fedele della realtà, qualcosa di molto superiore a ciò che definiremmo come un ologramma.

Quasi alla fine della lettura di Morel, uno dei suoi amici chiamato Stoever si agita molto: ricorda che, nella ditta che Morel menziona come luogo dei primi impieghi della sua invenzione, ci sono state morti inspiegabili fra gli impiegati e che anche il loro amico Charlie, morto di recente, è stato “fotografato” da Morel per ammissione di quest’ultimo. Come se, vivere nell’immagine, privi del soffio vitale l’oggetto ritratto. Morel si adira e va via prima di aver finito la lettura del dattiloscritto, a questo punto il gruppo minimizza il timore un po’ tribale di Stoever. Tutti escono dalla stanza. Il Fuggitivo ne approfitta per rubare i fogli dattiloscritti da cui Morel ha letto e che nell’ira ha abbandonato sul tavolo, torna nel nascondiglio vicino alle paludi e medita: “Dopo la spiegazione di Morel mi sembrò evidente che era tutta una manovra della polizia; non mi perdonavo di essere stato così lento a capire. […] Può ben darsi che la mia cattura sia ancora la professione di qualcuno, la sua sola speranza di avanzamento burocratico” (p. 106). Si addormenta e sogna Faustine, ma al risveglio c’è solo “un’inconsolabile disperazione perché Faustine non c’era, e con lacrimoso conforto perché ci eravamo amati senza riserbo. […] La mia tristezza era profonda, decisi di uccidermi; ma quando levai gli occhi in alto vidi Stoever, Dora e poi gli altri, sull’orlo del colle. Non avevo bisogno di vedere Faustine. Mi sentivo sicuro: ormai non mi importava più che ci fosse o che non ci fosse. […] Trovarsi in un’isola abitata da fantasmi artificiali era il più insopportabile degli incubi; essere innamorato di una di quelle immagini era peggio che essere innamorato di un fantasma (forse abbiamo sempre voluto che la persona amata avesse un’esistenza di fantasma)” (p. 107).

È chiaro il potenziale perturbante di queste immagini, tanto che “distruggere gli apparecchi che le producono (senza dubbio stanno in cantina) oppure rompere il rullo, sono le mie tentazioni preferite; mi domino, non voglio occuparmi dei miei compagni d’isola perché mi sembra che possiedono tutto quel che serve per trasformarsi in ossessioni” (p. 109-110).

L’invenzione di Morel rappresenta concretamente la possibilità di sopprimere un’assenza, dunque in qualche modo di sopprimere un desiderio, ma rimanendo soli. Innamorarsi di un’immagine e crearne i pensieri, come Narciso, fino al passaggio successivo e implicito, ossia innamorarsi di una macchina, come il protagonista del film di Marco Ferreri I love you (1986).

Realtà, immagine, macchina: possiamo trasporre questi termini nella riflessione peirciana. La realtà, come Faustine, è un oggetto. Il suo ologramma è il segno dell’oggetto. La macchina è l’interpretante.

Va detto che in questo caso specifico il segno sarebbe un indice, poiché “Le fotografie, specialmente le istantanee, sono molto istruttive, perché sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente uguali agli oggetti che esse rappresentano. Ma questa rassomiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali che esse erano fisicamente costrette a corrispondere punto per punto all’oggetto in natura. Sotto questo aspetto, dunque, esse appartengono alla seconda classe dei segni: quelli per connessione fisica” (Peirce, 2003, p. 166), ma in quanto segno misto è anche un’icona, come dice lo stesso Peirce: “Nella misura in cui l’Oggetto agisce sull’Indice, l’Indice ha necessariamente qualche qualità in comune con l’Oggetto, ed è rispetto a queste qualità che l’Indice si riferisce all’Oggetto. L’indice, perciò, implica una specie di Icona, sebbene un’icona di un tipo peculiare; e non è la pura somiglianza al suo Oggetto che lo rende segno, ma è l’effettiva modificazione subita da parte dell’Oggetto” (Peirce, 2003, p. 1247).

“Un’Icona è un segno che si riferisce all’Oggetto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che tale Oggetto esista effettivamente, sia che non esista. E’ vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l’Icona non agisce come segno; ma questo non ha nulla a che fare con il suo carattere di segno” (Peirce, 2003, p. 153). Forse ha ragione Morel: le immagini hanno un’anima e possono perfino coincidere con la realtà.

L’interpretante, infine, è il materiale di pensiero che determinerà la rappresentazione (già potenzialmente presente nel segno) nella mente di chi ne fruisce ed è l’involucro di questa assenza: nel segno si rimarca, come fa la rimozione che mette in mostra, l’assenza di Faustine, ma questo segno a quali immagini mentali del Fuggitivo si aggancia per potergli significare qualcosa?

L’interpretante secondo è quello del fantasma macchinico che invera con la sua morte sostanziale tutte le pulsioni autodistruttive di cui il Fuggitivo dà ampia testimonianza, ma è l’interpretante primo – ciò che lo ha fatto innamorare di Faustine – a doverci interessare più di tutto.

Il mito di Narciso ci dà un utile appoggio. Difatti in esso è presente un elemento spesso sottovalutato: la ninfa Eco. È di questo che il Fuggitivo si innamora, dell’eco dei suoi pensieri che gli tornano indietro (in forma invertita, direbbe Lacan) dall’immagine. Ecco dunque qual è l’interpretante primo: l’immagine di tutte le donne che il Fuggitivo ha amato, amerebbe, ama e amerà. In questo senso il Fuggitivo non poteva che innamorarsi di una figura evanenscente, di una Fuggitiva. In questo modo il futuro ha influito sul passato, i pesci putrefatti sono tornati a nuotare coi pesci vivi.

Lui, letteralmente, le avviene: quando ancora non sa che è solo un’immagine, il suo pensiero si assilla a tappare i buchi di nonsenso della “relazione” con lei tanto che “ormai è un fastidio come amo questa donna (ed è ridicolo: non ci siamo parlati nemmeno una volta)” (p. 87). Si può dire che, aiutato dai due numi fantasmatici della solitudine (l’invisibilità e la morte), ha convogliato tutto se stesso in lei alterando le loro posizioni: è Faustine a vivere, agire, parlare autonomamente, mentre lui è confinato in un’autofinzione che si muove come una marionetta che tiri i propri fili. Siamo in una follia ben oltre quella de La femme e le pantin di Pierre Louÿs. È il suo continuo chiedersi cosa pensa Faustine a rendere lei vera e lui un’autofinzione di questa lei virtuale: tutta la vitalità del Fuggitivo è in Faustine, a lui non rimane altro che la paura e una paradossale solitudine, lui non vive e lei sì, lui è il passato e lei il presente.

Ma come può amarla tanto se è solo un’immagine? Rispondiamo, come ricorda Metz a proposito dell’esercizio del cinema (Metz, 2002, p. 71), col desiderio di vedere e col desiderio di ascoltare.

Lacan si occupa di queste pulsioni nel Seminario XI formulando la pulsione invocante e riformulando la pulsione scopica in termini non difficilmente sovrapponibili al nostro oggetto d’interesse. Il rapporto che si basa sulla pulsione scopica è definito come il rapporto in cui “l’oggetto da cui dipende il fantasma a cui il soggetto è appeso in un vacillamento essenziale, è lo sguardo” (Lacan, 2003, p.82) e – molto opportunamente per il nostro caso – vi si menziona l’anamorfosi come “rovescio della coscienza” (Lacan, 2003, p.82) e modo per “prendere in trappola colui che guarda” (Lacan, 2003, p. 91).

In effetti è proprio ciò che accade al Fuggitivo verso la fine del libro: prima resta intrappolato nella sala macchine dove nascono le immagini, ma riesce a uscirne fortunosamente poco prima di morire d’inedia, poi, appena riesce a disinnescare l’invenzione di Morel, avverte il suo “sdoppiamento in attore e spettatore” (p. 129).

La pulsione invocante, invece, attiene alla “scomparsa tragica ove abbiamo perduto colui che parla” (Lacan, 2003, p. 81) ed è strettamente connesso col “farsi vedere” della pulsione scopica, tanto che Lacan si appella a questa per spiegare quella: “Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi. Mentre il farsi vedere si indica con una freccia che veramente ritorna verso il soggetto, il farsi sentire va verso l’altro” (Lacan, 2003, p. 190) e “A livello scopico, non siamo più a livello della domanda, ma del desiderio, del desiderio dell’Altro. Lo stesso vale a livello della pulsione invocante, che è la più vicina all’esperienza dell’inconscio” (Lacan, 2003, p. 102). Non è forse questo il cruccio maggiore del Fuggitivo? Il fatto che Faustine non gli parli?

Nelle ultime pagine del libro di Bioy Casares è esposto il delirio lucido del protagonista, in cui si concentrano in forma aggrovigliata e accennata tutti i punti che si è provato a esporre finora. Forse “Io sono l’innamorato di Faustine; quello capace di uccidere e di uccidersi. Io sono il mostro” (p. 139) ne è la l’esempio più pregnante.

Le radiazioni prodotte dalla macchina lo stanno lentamente uccidendo invalidandogli gradualmente il corpo dall’esterno all’interno, ma il suo ultimo pensiero è per la sua anima che non è ancora divenuta immagine e per Faustine. Siamo all’epilogo: la massa davanti a cui il Fuggitivo si è trovato era eccessiva per poter essere abbracciata in uno sguardo, un Tutto troppo grande e troppo vicino nel suo blow-up che lo ha accecato prima e appiattito alla sua schiacciante inferiorità dopo.

L’invenzione di Morel, su cui ancora molto bisognerebbe dire approfondendo le ultime parole del Fuggitivo, ci illustra il nocciolo dell’autofinzione, che ci appare come il meccanismo adattativo a una Cosa inimmaginabile al punto da non essere concepibile, a un’evidenza così lampante da essere invisibile come la lettera di Poe.

Un debordare che sembra irreale per quant’è irrazionale e che può farsi intuire in modi ben più umani dell’immortalità vagheggiata da Morel, come l’autoinganno dell’amore a cui il Fuggitivo aderisce autofingendosi parte delle immagini di Morel.

Lo stesso amore, disperato e folle, che lo lega all’assenza di Faustine e in punto di morte gli fa dire: “All’uomo che, prendendo spunto da questa relazione, inventerà una macchina capace di riunire le presenze disgregate, rivolgo una supplica. Cerchi Faustine e me, e mi faccia entrare nel cielo della coscienza di Faustine. Sarà un atto pietoso” (p. 144).

Bibliografia

Bioy Casares, A., [1941] La invención de Morel, trad. it. 1966, L’invenzione di Morel, Milano, Bompiani. Introduzione di Jorge Luis Borges.

Dummett, M., [1978] Truth and Other Enigmas, trad. it 1986, La verità e altri enigmi, Milano, Il Saggiatore.

Freud, S., [1911] Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia (Dementia paranoides), trad. it. 1992, Il caso di Schreber, in Opere 1905-1921, Roma, Newton Compton Editori.

Goffman, E., [1959] The presentation of Self in Everyday Life, trad. it. 1969, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino.

Lacan, J., [1973] Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, trad. it. 2003, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Torino, Einaudi.

Metz, C., [1993] Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, trad. it. 2002, Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio.

Miller, J.-A., trad. it. 2011, Vita di Lacan, Macerata, Quodlibet.

Nietzsche, F., [1881] Also sprach Zarathustra – Ein Buch für Alle und Keinen, trad. it. 1968, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi.

Peirce, C., trad. it. 2003, Opere, Milano, Bompiani.

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