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Chiunque lavori o abbia lavorato per la pubblica amministrazione e, avendo qualche cognizione di stile, si sentisse mortificato o irritato dal burocratese, si renderebbe presto conto che non c’è rimedio.

La burocrazia è un’attività che si svolge in un territorio fra i più pericolosi: quello della lingua per la legge, che, come tale, risente in Italia dell’oscurità diffusa sistemicamente nella legge stessa. I motivi storici sono facilmente tracciabili, perché l’Italia ha una storia di aristocrazia in cui il suddito è un ospite sul territorio di proprietà del re e quindi la legge deve essere inaccessibile al suddito e manipolabile dal notabile. La nostra relativamente giovane democrazia è alle prime armi in tema di semplificazione, anche a causa del livello medio dei burocrati in carica. La semplicità del “Mind the gap” della metropolitana londinese è lontana anni luce dal nostro feticismo del chiasmo: saremmo perfino in difficoltà se alla banchina dovessimo imbatterci nella scritta “Occhio al buco”.

Inoltre, altro problema insito nel burocratese come “lingua per” è, similmente al linguaggio generale, quello di non avere un referente esterno che ne sancisca la validità. Abitualmente accettiamo che il linguaggio si tenga in piedi e si convalidi da sé, senza che intervenga un arbitro esterno, e grazie a questa tacita accettazione siamo in grado di apprezzare in egual misura tanto i libri di Gadda quanto quelli di Camus, senza ritenere gli uni o gli altri linguisticamente illegittimi. La questione nasce quando questa liberalità viene portata nell’ambito legale o burocratico, col portato di oscurità che ben conosciamo.

Purtroppo, il lavoro burocratico – che deve pur avere un metro di giudizio – non è soggetto ai dettami del buon gusto, così solo la quantità di carta prodotta diventa un parametro oggettivo. Comunicazioni di diversa natura, specialmente quelle dirette ai cittadini, devono raggiungere una certa lunghezza per motivare lo stipendio, perciò, informazioni che richiederebbero sì e no un paio di cartelle, vengono dilatate follemente per raggiungere un’inoppugnabile lunghezza: in questo modo, lo scribacchino di turno, magari assunto come consulente esterno per la comunicazione, potrà trionfalmente portare a casa il risultato di sei o sette cartelle piene di refusi e soperchierie retoriche.

Quella più divertente, almeno a giudizio di chi scrive, è la dittologia sinonimica.

Frasi come “accelerare, accrescere, favorire e migliorare lo scambio di informazioni” o l’insistenza con cui compaiono anglismi posticci e parole tipo “preposto” sono l’indice di una mancanza di cognizione di quel che si sta facendo, ma la ripetizione di parole fra loro pressoché identiche è opera di studio diabolico. Anzi, “diabolico e maligno”. Se i documenti burocratici avessero la prestanza di sviluppare simili artifici per rafforzare un messaggio non ci sarebbe nulla da ridire, purtroppo però servono solo a coprire una data superficie cartacea.

La tematica non è nuova e la pubblica amministrazione stessa s’è data da fare un po’ per riparare, inutilmente s’intende. Proprio per questo, forse, sarebbe proficuo “riparlarne e ridiscuterne”. Anche perché sembra che il problema non sia il cosiddetto “cultismo”, ma il suo esatto opposto: l’ignoranza crassa, l’inattitudine all’intarsio dello scritto, la scarsa frequentazione con la lingua. Siamo infatti d’accordo che l’italiano sia una lingua predisposta a simili violenze, dato che non possiede veri sinonimi, ma solo dei quasi-sinonimi (“maschio bianco” è affine a “uomo candido”, con l’evidente slittamento di senso), ma proprio per questo chi scrive per il pubblico più ampio immaginabile – cioè quello della p.a. – dovrebbe sapere come aggirare gli ostacoli invece di crogiolarvisi. Sarebbe sufficiente, cinque minuti al giorno, frequentare un semplice dizionario, cosa che disgraziatamente esonda dalle mansioni dell’estensore pubblico, sovente lasciato a gerbido.

Forse sarebbe davvero il caso di mettere da parte il valore legale del titolo di studio per introdurre l’obbligo di periodici corsi di scrittura, come una sorta di misura d’igiene. Bisognerebbe spazzar via la sporcizia mentale che intasa la formulazione dei periodi con ipotassi e paraipotassi, ritornare a insegnare l’analisi logica e grammaticale e concentrare l’attenzione di chi scrive per la p.a. sulla frase minima e semplice (o frase nucleare) prima di lanciarsi in quella complessa.

Anche qui sussiste una ragione storica: troppi grandi scrittori e pochi onesti scrittori. Non è casuale che in Italia il cinema si sia sempre diviso in cinema intellettuale e commediola, a differenza degli americani, che hanno un solido comparto di qualità intermedia: difettiamo di umili scrittori consci dei pericoli insiti nel lasciare troppo libero il sintagma, non abbiamo scrittori di mestiere, siamo lasciati a noi stessi nel gestire il linguaggio medio. Questo ci penalizza nell’invenzione di una lingua comune che non sia sciatta o cervellotica e conferma che «l’italiano è una lingua parlata dai doppiatori».

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