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Il 2 maggio è stato l’ottantacinquesimo compleanno di Giacinto “Marco” Pannella.

L’occasione, per chi fosse in vena di distopie o utopie, è ottima per costruire qualche frammento di presente alternativo.

Siccome con questo approccio si rischia di scrivere un romanzo, dobbiamo per forza mettere le briglie alla fantasia e concederle solo qualche sprazzo, così da rimanere nell’alveo di un normale articolo.

Per esempio, volendo puntare sul facile e sul ben visibile, nonché sull’assonante, che passato ci sarebbe dovuto essere per avere oggi Pannella al posto di Mattarella? Il numero di eventi che separano i due presenti è vertiginoso e solo uno storico visionario o uno scrittore geniale potrebbero in qualche modo rispondere, e nell’arco di vari volumi. A noi, più modestamente, non resta che sognare.

Un presidente della Repubblica che, per dare un input alle Camere, anziché una barbosa esternazione, fuma uno spinello a reti unificate. Anziché il discorso di Capodanno in diretta dall’oltretomba, un delirante fiume di invettive e debordanti notazioni storiche. Ma questo è folklore.

Il Pannella talmudico delle domeniche con Massimo Bordin da una parte, il Mattarella in tre pezzi grigio e tono flebile dall’altro.

In questo presente, Mattarella, in occasione della Giornata Mondiale del libro (21 aprile), occasione in cui è lecito far volare lo spirito, dice: «I latini chiamavano liber il manoscritto, il libro. Liber, come il sostantivo e l’aggettivo che definivano l’uomo libero. Si tratta – lo sapete, certamente lo sanno i vostri docenti – di etimi diversi. La parola “libro” viene da corteccia, la corteccia degli alberi sulla quale si incidevano le iscrizioni. Ma questa identità del termine è quanto mai opportuna: in questo tempo avvertiamo particolarmente che leggere è parte di un percorso di libertà. Diceva un grande scrittore per ragazzi, Gianni Rodari: “Vorrei che tutti leggessero. Non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”. Più libri vuol dire più libertà. Più lettori vuol dire più conoscenza, più spirito critico, più autonomia di giudizio, elementi essenziali di una convivenza». La più risaputa delle banalità etimologiche, la pedanteria istituzionale, il richiamo apotropaico a Rodari (che fa fine e non impegna), una perorazione stantia della libertà di pensiero. La colpa non è certo di Mattarella, ma di chi gli scrive queste cose.

Cosa avrebbe detto Pannella? Impossibile immaginarlo, perché sarebbe andato a braccio, divagando, ma quanto più fascino, quanta più immaginazione: almeno ci sarebbe stato il gusto dell’imprevedibile, da cui spesso l’abruzzese fa uscire qualche perla.

È evidentemente il passato che c’è stato che ha escluso questo portato di estro dalla nostra vita pubblica, più devoluta alla guittezza e al cattivo gusto. Il gaudente tono pannelliano oggi stride rispetto a un pantano di slogan sconnessi, troppo colto rispetto alla facilità degli orrori che si sentono dalle istituzioni, troppo contorto per un paese di analfabeti di ritorno.

In altri luoghi Pannella sarebbe già diventato un monumento, un’opera d’arte concettuale, se non altro per il suo linguaggio, per lo sfilacciamento del suo discorso pubblico: inevitabilmente faticoso perché denso.

La questione, però, è proprio questa: da un lato abbiamo dei discorsi che somigliano a bollettini da economato (si legga il discorso di Mattarella per il Primo Maggio), dall’altro qualcosa di incerto da interpretare e da capire. L’ovvio istituzionale e la sfida intellettuale.

Questa realtà, questo paese, ha scelto per improntitudine di sposare l’ovvio, di rigettare la sfida come fumosa e inconcludente, di bearsi del prevedibile e rassicurante ma inutile.

Dunque cosa consigliare a chi, un domani, volesse sobbarcarsi della fatica di scrivere un romanzo di fantascienza su un futuro alternativo della Repubblica? Di capire cosa ci ha portati, negli ultimi sessant’anni, a ritrovare nell’inutile qualcosa di dignitoso e salvifico mentre nell’arduo nutriente qualcosa di futile e scombiccherato.

Non ci resta che augurare a Pannella molti altri anni in cui sfilacciare ancora di più il suo discorso, cosicché i carbonari che sopravviveranno a questo giacobinismo del risaputo possano farne una palestra di sottigliezza, dove allenarsi a distinguere nella trama irregolare della digressione il nocciolo essenziale.

Perché non è nel cadavere del discorso istituzionale che si trova la complessità del vivere, ma nella digressione che palpita, a patto che sia qualcuno altrettanto vivo, come Pannella, a farla.

Se questi finora ci ha insegnato qualcosa è il suo libero amore per il diritto, senza che diventi mai esegesi o bibliolatria. Un amore che dovrebbe rappresentare davvero il nodo di una riflessione ininterrotta sulle regole che permettono alla nostra società di progredire, perfino nella paradossalità di un’amnistia in nome della legalità.

Questa è solo l’ultima delle sfide al ridicolo di cui Pannella non sembra mai sazio, ma forse solo in pochi – anche fra i cattolici – avranno scorto la testimonianza perfetta di quel sacrificio attraverso cui una comunità si affranca dalle proprie colpe per mezzo di un capro espiatorio. Per nostra fortuna, questo capro espiatorio in particolare è miracolosamente coriaceo.

Antonio Romano

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