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L’attentato del 7 gennaio alla redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo è la dimostrazione di un errore che coinvolge molte persone.

Coinvolge la “tendenza Le Pen”, che vorrebbe una soluzione tanto netta quanto vaga del problema islamico. Fintanto che ci vorremo definire delle democrazie e vorremo pretenderci diversi rispetto agli Stati dell’anteguerra, non potremo adottare quasi nessuna delle misure che piacciono alla signora Le Pen e al suo elettorato. Quindi anche tanti emuli di Clint Eastwood, facili pistoleri da scrivania, intellettuali muscolari autori di libercoli da supermercato possono mettersi l’anima in pace e rimettere Carl Schmitt nel cassetto.

Coinvolge anche la “tendenza ospitalista” della sinistra multiculturale e deproblematizzata. Quella delle braccia aperte, dell’accoglienza ottusa, in cui umanismo e animalismo sono la stessa cosa perché sembra pensare che basti riempire le scodelle a tutti per evitare che ci si sbrani. È la sinistra delle volontarie che vanno in Palestina perché “Israele è un covo di nazisti” e vengono rapite dall’Isis. Anche questa gente sbaglia, credendo che la differenza irriducibile manifestata dagli ambienti dell’integralismo islamico sia assimilabile con una sorta di amore cristico senza crocifissione.

Coinvolge soprattutto i cantastorie dell’Occidente, tanto quelli che sostengono che l’Occidente attaccato è in guerra con gli islamici, quanto quelli che sostengono che l’Occidente sia una società indefinitamente aperta: entrambe, pur opposte, si cullano sull’implicita particolarità (se non superiorità) occidentale e, inevitabilmente, entrambe sono fallimentari.

In realtà, l’unica tendenza ad aver avuto ragione fino in fondo è quella di Charlie Hebdo.

L’Occidente, per i suoi intrinseci valori, non può discriminare in alcun modo una cultura diversa e, peggio ancora, se ha a cuore il concetto stesso di diritto e la distinzione fra diritto in tempo di pace e diritto in tempo di guerra, non può parlare di “nemici”. È impensabile che l’Occidente cominci a parlare di guerra laddove i “nemici” sarebbero i suoi stessi cittadini, com’è il caso degli islamici. Le guerre civili sono state superate e un loro ritorno segnerebbe una regressione che farebbe il gioco dei terroristi e degli integralisti.

Ma contemporaneamente non si può pretendere che la cultura occidentale si apra a tutto, anche al suo opposto, anche alla minaccia a se stessa. Non può abbassarsi ad accettare usanze che mettono in discussione i propri cardini, non può ammettere che la libertà conquistata faticosamente sia sacrificata sull’altare dell’integrazione a ogni costo.

La “tendenza Hebdo”, per questo, vince: senza aggredire, senza scadere nel nazionalismo, ha rimarcato nella maniera più efficace di tutte le differenze rispetto a queste minacce anti-occidentali.

Ridere di Maometto o del Papa è stato il gesto più Occidentale di tutti e allo stesso tempo il più potente, più ancora delle marce per la salvezza della Francia dall’islamizzazione.

Il potere della satira, di cui tanto si parlò proprio in Italia in anni passati e – come sempre, purtroppo – grossolanamente, è eminentemente occidentale: è l’unico prodotto che distingua la nostra cultura da ogni altra. La possibilità di mettere sullo stesso piano ogni preteso potere intangibile, religioso politico o culturale, e il suo contrappunto scatologico o viscerale fra pancia e sottopancia è proprio quel nucleo culturale imprescindibile che ci ricorda qual è il nostro corredo genetico e cosa non possiamo sacrificare a nessun prezzo. Ridere del potere ci distingue e funge da anticorpo necessario: chi non ride è un potenziale terrorista. Quindi chi uccide per la propria fede, per la propria patria, per la propria parte politica, non può dirsi del tutto occidentale.

L’evento che si è verificato il 7 gennaio è un punto di non ritorno: non si è bruciato un supermercato o ucciso qualche operatore di Borsa, nemmeno l’uccisione del regista Theo Van Gogh o la carneficina di Utøya rivaleggia con questo attentato, perché in nessuno di questi casi è stata messa a repentaglio la libertà di ridere, che è la quintessenza e contemporaneamente la condizione primaria della libertà d’espressione. Poter ridere liberamente è più importante che parlare liberamente perché oltrepassa molti limiti della semplice espressione, mette in risalto il lato comico delle cose, il doppiofondo ridicolo del potere. Se ce ne dimentichiamo è finita: su questo, purtroppo, l’Occidente non può transigere e deve reagire, infischiandosene del quieto vivere: ogni giornale, ogni sito internet, anziché scusarsi con questa o quella fede, da oggi sarà costretto – se vorrà non essere complice – a salire sulle barricate della satira, chiunque voglia ancora dirsi libero dovrà dismettere ogni senso di moderazione e mandare a memoria tutte le barzellette che troverà sulla religione e sulla morale comune.

È il minimo per commemorare gli undici redattori caduti: imparare a ridere di coloro che li hanno uccisi.

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