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Di una cosa si può avere ragionevolmente l’impressione: oltre l’ossessivo e fantasmatico riferimento ai “giovani” in un paese in cui a cinquant’anni ti dicono che sei ancora giovane o qualche borborigmo sulle istituzioni o paragoni pirandelliani con altri paesi, non si può dire che la classe politica italiana (sindacati e affini inclusi) abbia mai veramente capito come si comunica decentemente. Precipitato pratico di questa neghittosità è il rapporto fra i partiti e la comunicazione pubblica. Diciamo pubblica perché sarebbe impresa di vari tomi descrivere l’eziogenesi della malattia che attanaglia la loro comunicazione interna. Epifenomeni di questa situazione sono splendide candid camera involontarie in cui, con un discorsetto o anche una sola frase, l’eminente personaggio di turno copre di ridicolo se stesso e ciò che rappresenta. Questo è particolarmente spiacevole se il soggetto in questione è smottato da un ruolo partitico a uno istituzionale: l’imperizia duramente interiorizzata nel primo non viene affatto dimenticata passando al secondo.

Uno dei casi più amati dalla Rete è l’intervista rilasciata da Franco Frattini, allora ministro degli Esteri, al giornalista della BBC Jeremy Paxman, dove un “pietas” improvvidamente proferito in un inglese alquanto spigoloso è stato la débâcle fatidica di un dialogo infaustamente cominciato. Se ne raccomanda la visione su Youtube.

Di recente, un’altra frase sconveniente avrebbe meritato di assurgere agli onori dello sberleffo come la precedente: quella pronunciata nel corso dell’incontro del 9 giugno alla Facoltà di Architettura della Sapienza dal ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini all’indirizzo del presidente di Google Eric Schmidt. Quest’ultimo ha detto che in Italia si studia poca informatica e Franceschini ha risposto che siamo bravi in altre cose, come la storia medievale. L’intero discorso era più articolato e lasciamo al giudizio soggettivo ogni valutazione di merito, ma il suddetto botta e risposta è terrificante in sé: davanti alla personificazione del fenomeno che ha dimostrato al mondo l’importanza vitale di Internet e dell’informatica, che è diventato ricco grazie a ciò e dirige un gruppo che si è dimostrato anche generoso per quanto riguarda la cultura, il ministro dei Beni Culturali giustifica il baratro tecnologico che ci separa dal resto del mondo con “in ogni Paese ci sono vocazioni, magari un ragazzo italiano sa meno di informatica ma più di storia medievale e nel mondo questo può essere apprezzato. Un ragazzo italiano ad esempio potrà andare negli USA a insegnare storia medievale e uno americano potrà venire qui a insegnare informatica”.

Sempre al di là del merito e rimanendo su quello scambio di battute, si noti che Schmidt non ha detto di abolire la storia medievale o di conformarci al sistema d’istruzione statunitense: ha detto che va fatta un’aggiunta vitale. Oggi è l’informatica ciò che nel Seicento era la tipografia, tocca farsene una ragione. Come può dunque il ministro asserire che pazienza per l’informatica, ci rifacciamo con la storia medievale?

Su una base meramente comunicativa è imperativo, nel presente regime mediatico, rimanere visibili: agganciati all’attenzione per l’attuale. La comunicazione posta in essere da Franceschini in quel caso è tutt’altro che attuale. È anche lungi da suggestioni nicciane di inattualità. È semplicemente antidiluviana. E pregiudica la credibilità di tutte le affermazioni che Franceschini può fare in senso contrario. È antistorica e anticomunicativa. Naturalmente non si vuole fare una osservazione analoga a quella che Grillo fece su D’Alema, quando lo dipinse come uno zelota perché D’Alema s’era vantato di non avere l’orologio e di non saper usare un computer. Il punto qui non è definire un’antropologia, ma capire un modo di far trapelare i propri pensieri all’esterno.

Qui, però, dobbiamo anche essere onesti: se Franceschini avesse abbozzato quasi sicuramente lo si sarebbe tacciato di scarso patriottismo, di aver contratto il morbo antitaliano dell’esterofilia atlantica, di aver nicchiato. Cosa disdicevole in generale e per un rappresentante della Repubblica massimamente. Dunque, se le cose non capitano per caso, quella comunicazione di Franceschini poteva funzionare proficuamente solo col tipo di uditore che non ammette critiche al proprio Paese da uno “straniero”, anche se giuste. Ma allora non sono, come molte stroncature spuntate hanno ritenuto, il contenuto o l’intento del messaggio a essere indici di arretratezza: lo è l’aver comunicato con quel pubblico lievemente sciovinista che lo avrà apprezzato. Sicuramente non era intento di Franceschini parlare da reazionario a reazionari, ma una semplice svista ha creato un ritorno di fiamma che ha alterato i tratti del ruolo che aveva il suo discorso: anziché magnificare a un potenziale investitore i beni posseduti dal Paese, ha ritenuto di difendere l’onore nazionale con una frase che è passata per un’imbiancata di sepolcro. Frase che è già slogan.

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