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Trovandomi a vedere dall’interno i lavori non d’una sezione Radicale qualunque, bensì dell’Associazione Aglietta di Torino, in un momento così significativo della storia recente dei Radicali, pongo preventivamente il contributo alla discussione che avremo nei prossimi mesi (almeno in primavera) sull’astensionismo. Indipendentemente dal risultato è utile portarsi avanti con l’inevitabile disastro civico che queste elezioni rappresenteranno, almeno stando alle statistiche (al momento oltre la metà degli elettori non si riconosce in nessun partito e i non votanti aumentano in modo costante).

La visibilità potenziale dei Radicali in questo momento è tutt’altro che disprezzabile e si può motivare. A partire dal 2015 (con la notizia drammatica del contemporaneo tumore dei due leader) continuando nel 2016 (con la morte di Pannella, con un’autentica e commovente reazione di pancia positiva di una massa indistinta di amici e i media sull’attenti come fossero morti tutti insieme e nello stesso teatro i Rolling Stone e gli U2), passando per “Mondo di Mezzo” anticipata da Riccardo Magi, il referendum Atac dei Radicali di Roma, la scissione (e il raggiungimento dei 3000 iscritti della fazione pannelliana ultraortodossa) e le mestizie condominiali riprese sui social, la eco del processo a Cappato concomitante all’approvazione della legge sul biotestamento, questa blasonata (perennemente in crisi) formazione politica ha avuto la conferma di non essere stata dimenticata quanto i servizi educativi Rai possono far pensare.

I Radicali (che qui non mi interessa distinguere nei diversi rivoli in cui il loro legittimo libertinismo li porta) si candidano oggi sotto il matrocinio di Emma Bonino, con l’unica lista ad avere la parola Europa nel simbolo: in perfetta controtendenza rispetto al momento (se non lo sottolineiamo non gli facciamo la giusta pubblicità). A giustificare le speranze, oltre la parvenza di visibilità acquisita, è il vuoto pneumatico di proposte circostante, nonché le minacce percepite da un sopravvissuto ceto informato rispetto al regresso della dialettica politica.

Con paragone specifico, l’Aglietta lavora alacremente (oltre al lavoro sul territorio, ricordiamo il digiuno di Igor Boni per l’approvazione dell’Ius Soli) e tuttavia osservo una certa fatica nel trovare un canale di comunicazione con la cittadinanza: com’è possibile che in una città colta, benestante e universitaria, l’Aglietta raccolga meno di cento iscritti? Il problema è diffuso in ogni formazione politica (stranamente non nei centri sociali, cosa su cui riflettere in correlazione alla loro scomparsa istituzionalizzata), ma è singolare che per la campagna elettorale di Emma Bonino, questa formazione non possa usufruire di spazi adeguati, di mezzi pubblici adeguati, e non riesca a intercettare il proprio elettorato.

Ho notato a più riprese espresso un principio che all’inizio mi ha infastidito. Lo ha fermato bene Emma Bonino nell’intervista del ventotto dicembre al Corriere: le pare che una formazione storica come la nostra debba raccogliere le firme?

Sulle prime a infastidire è il modo in cui è espresso. La mancanza di spazio a cui è sottoposto il concetto lo rende ostile, perché difficilmente si capisce in cosa dovrebbe distinguersi questo partito che manca in parlamento da quasi trent’anni. Posta così sembra quasi la richiesta di una legge ad personam per i Radicali per pregressi meriti riconosciuti. E il principio della personalizzazione è spregevole. Tuttavia mi sono sorpreso a nutrire un pregiudizio ingiustificato verso la personalizzazione: non fu Pannella a inventarsi il simbolo di lista col nome all’interno?

Come sappiamo, è attuale la parola obsoleta “tecnocrazia” e la critica dei tagli lineari, ma manca una riconoscibile differenza fra tecnocrazia e una moderna democrazia. Emma Bonino rappresenta un caso di legge ad personam che andrebbe fatta per dimostrare l’ipotesi avvincente che, a distinguere una democrazia da una tecnocrazia, sia la possibilità di riconoscere un premio semplicemente perché è giusto per sentire civico, non solo perché tecnicamente giusto: se in questo momento, in questo paese, in parlamento dovesse mancare questa formazione, è un istinto razionale che mi guida a decidere per una deroga alla regola. La mia memoria non mi dà altra possibilità.

Cosa impedisce ai votanti indecisi di afferrare che non ci sarebbe voto più utile?

Di conseguenza, poniamo per loro l’interrogativo inverso che porremmo a Berlusconi: quest’ultimo non sa più cosa inventarsi per non essere votato fra escort agnellini e cagnolini, mentre i Radicali non sanno più cosa inventarsi per essere votati.

Sebbene ormai gli elettori consapevoli siano nella fase del “ma chi vuoi far ridere”, il proposito per il nuovo anno, almeno fino alle elezioni, sarà quello di capire perché metà di questi indecisi (praticamente un quarto degli elettori) non sia – almeno dal buon senso – portata a partecipare alle attività Radicali in questa contingenza.

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