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Quello che, nell’accingersi a scrivere un pezzo d’inizio anno, può passare per la mente dell’osservatore di cose politiche è la domanda terribile: “cosa si può dire ancora della politica agli albori del 2017?”.

E la domanda – scontata e da scontare – non va più via, tanto che non rimane altro se non prender tempo, cercando forse di comprendere, anzitutto, cosa la innesca, differendo la scrittura e manifestandone la non urgenza.

Compare subito alla memoria un arido elenco di motivi, tutti piuttosto plausibili, di sfiducia riguardo la praticabilità di un discorso perì politikè organizzato secondo criteri d’oggettività adeguatamente onesta e rigorosa (e non perciò pesante, rispettoso del bisogno di leggerezza del fruitore) oggi, in questo oggi qui; nel quale ci si è disabituati a stabilire discorsi retti da logiche non televisive (cioè “spettacolari” in senso debordiano) col conseguente avvio all’estinzione – né meritata né immeritata, di certo inimmaginabile – del ragionamento diretto alla comprensione e alla conoscenza.

Il parlare a “tutti” del discorso politico discende dalla sua connessione col concetto di comunità nella doppia accezione valoriale e prossemica, che si potrebbe scoprire in embrione in quella filia attraverso cui per i greci si arrivava alla sapienza; senza la possibilità di ragionare in modo contenuto e completo attorno a un oggetto, non si costituisce discorso, discorso politico compreso, che non può essere esplorato e dunque conosciuto; uno spettacolo (fosse anche politico) si può solo guardare, “stare a vedere”, non serve conoscerlo basta esserne spettatori.

Quando oggi il parlare a tutti si veicola esclusivamente con l’immagine per la sua mefistofelica comodità – si affida cioè alle proprie spoglie, digerite, spettacolarizzate e decomposte in “contenuto d’infotaiment” (eccezioni di conforto a parte se esistono) – l’occasione del discorso viene sprecata a favore dello spettacolo di cui il sistema dei media pure si nutre.

Se la maggior parte dei contributi al dibattito politico sono (essendo in funzione di) preformati televisivi, quindi di per loro incapaci di uscire dalla logica del mezzo, quest’ultimo smette d’essere mezzo per trasformarsi in un flusso ininterrotto, insensato e ripetitivo: la macchina gode che le si chiedano copie di immagini, cioè copie delle copie dell’oggetto, e ne riproduce in abbondanza.

Possono anche non mancare iniziative politiche reali e dibattito, ma d’esse non si ragiona, paradossalmente per l’assenza di un foro di discussione appropriato, e finiscono nella fiumana del già visto e detto di internet.

Resiste, brevemente, ciò che rientra nella logica spettacolare e desta attenzione, dunque non il semplice discutere, pur con tutte le sue formidabili trappole, ma l’attrarre a qualunque prezzo.

Il nocciolo della sfiducia, non si direbbe, ma è legato, se non alle regole logiche su cui regge il dibattito, allo spirito che lo anima (costruzione frastica apposta di sapore evangelico, dato il carattere aereo del discorso secondo filia).

Lo spirito che ha animato finora lo stile “retorico” della conoscenza, argomentativo progressivo e agonico, ha sempre rispettato il tempo che occorreva all’oratore per dipanare il suo discorso, specie in occasioni di ascolto pubblico su temi comuni. Oggi esso concima la civiltà senza nome che rappresentiamo: toccherà certo ai posteri trovare una classificazione per la nostra grottesca usanza da epoca di mezzo di avvitarci in questo reciproco e assillante scambio d’immagini (“figurine”, “santini”: immaginette comunque) di pensieri, anziché limitarlo a ciò che vale la pena d’essere scambiato. L’assenza di questo principio regolatore nella creazione del discorso politico lo rende acefalo nel senso inteso da Bataille, senza testa come la civiltà è senza nome, nel senso di priva d’un nome gerarchicamente sovrano che dia ordine a tutti gli altri e permetta a chi osserva – cioè, ascolta – di assumere un “sistema” di nomi in cui muoversi.

Se quindi il politico o il commentatore si affida pigramente ai media, entrando nel flusso senza esprimere una volontà, è naturale che questi lo accolgano fra i loro contenuti, solo che per condurre un discorso sulla comunità e alla comunità occorre ben più di quanto concesso dalle media company (Facebook compreso) per mantenere i margini in bilancio.

Insomma, scrivere non sembra urgente perché – dato lo spazio esistente – non si ha mai tempo di capire di che si parla o di che parlare. La giustapposizione di immagini verbali e non delle piattaforme di contenuti, che ha sostituito le tribune politiche (della cui rappresentanza tali piattaforme non hanno che una vaghissima reminiscenza) senza eguagliarle, rende velleitaria qualunque possibilità di argomentazione.

Forse questo si potrebbe ancora rimarcare in proposito di politica, almeno sotto il profilo mediatico e comunicativo: il metodico occultamento dell’argomentazione all’alba dell’età post-retorica della conoscenza come conseguenza funzionale della piattaforma che appiattisce, ma cadremmo invariabilmente in un già detto apocalittico.

E, del resto, non sarebbe popolare sostenere al suo debutto che il 2017 potrebbe essere l’anno della domanda: “Che dire ancora di questa sostanza informe, detta discorso politico, che l’argomentazione annichilisce e l’idea annienta?”.

In che modo confrontarci ancora con questo discorso politico, che ormai sembra una medusa, senza muscoli senza ossa e senza cervello, ma al mondo da 650 milioni di anni?

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