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Hijab e tacchi a spillo. Una proposta dalla civiltà pornografica.

I dibattiti sullo scontro di civiltà possono essere affascinanti quanto si vuole, ma dopo un po’ annoiano: toccano più o meno sempre gli stessi punti negli stessi modi.

Una prima domanda che potrebbe ravvivarlo sarebbe: se l’appeal che il radicalismo islamico esercita sui giovani nasce da un’insoddisfazione nei confronti delle nostre società, che a ben vedere non piacciono troppo nemmeno ai noi stessi, come e quanto riusciamo a vessare le “comunità allogene” senza rendercene conto? Probabilmente non molto di più di quanto vessiamo gli autoctoni, ma ci deve essere qualcosa di più che consente ad alcuni di abbracciare ed estremizzare la fede islamica, anche se non gli infliggiamo atroci patimenti.

Qui già arriva un tema più isolato del dibattito: la superiorità morale, sentirsi in qualche modo migliori, più normali o decenti della società in cui si vive. Anche se stentiamo a metterci da questa prospettiva e coltiviamo privatamente la nostra superiorità morale autopercepita, sarebbe la prospettiva più giusta: in questa luce, i barbuti che urlano dai video “Stiamo arrivando” ispirano nel radicalizzando più un senso di liberazione e di rivalsa che la prospettiva di farsi esplodere. O, meglio, la strage è in sé il modo per ripulire il proprio ecosistema dai cosiddetti (secondo un ben rodato lessico totalitario) parassiti.

Esiste un’aura magica attorno ai combattenti dello stato islamico, incoraggiata dai video di propaganda che mandano in giro, che resiste a ogni tentativo di criminalizzazione da parte delle nostre benintenzionate politiche d’integrazione. La nostra impotenza risiede nel fatto che più condanniamo e reprimiamo la violenza di cui siamo oggetto più le diamo prestigio agli occhi del radicalizzando. Propaghiamo il messaggio dell’amore e anche questo non va bene, perché poi in Belgio saltano una trentina di persone. Allora aumentiamo la violenza, infliggiamo sconfitte militari all’Is, ma poi – come sottolinea Alessandro Orsini, direttore del Centro per lo Studio del Terrorismo di Tor Vergata – a ogni sconfitta sul territorio segue un altro attentato in Europa. Ricordiamo però che il novanta per cento delle vittime di questo conflitto non è europea né americana.

Per evitare che il cane continui a mordersi la coda, bisognerebbe eliminare la distanza morale percepita dal radicalizzando. Il martire, quando non in incognito, ha bisogno di tutto un corollario per funzionare al livello immaginario, come un bambolotto componibile: deve dotarsi di barba, copricapo etnico, kalashnikov, ma anche di bambini che giocano e dunque implicitamente di madri, senza dei quali non può far passare l’immagine di un mondo equivalente, dove si può anche avere una famiglia e non solo morire male. Le donne giocano ruoli particolari in questa particolare guerra perché il combattente è come una Barbie che ha bisogno di tutti i pezzi, Ken incluso. Alla figura del martire musulmano o del guerriero di Allah che vive felice e fa andare sull’altalena i bambini, fa da contraltare una figura femminile anonima come soggetto ma perfettamente autonoma come costruzione simbolica, ed è questo lo spiraglio per distruggere l’aura e ristabilire un’equipollenza morale.

Di getto si direbbe invece che dovremmo migliorare un po’ noi, offrire un paradigma che si giovi di una medesima aura purificante, anche perché ne avremmo bisogno, essere più accoglienti ecc. ma sarebbe solo un pretesto come altri già in circolazione per continuare ad autopunirci per i nostri presunti peccati, in pieno spirito terzomondista: dovremmo invece mettere a frutto la capacità più notevole della nostra civiltà, e cioè portare tutto al nostro standard.

Allora un approccio più interessante al problema potrebbe magari passare per il porno.

Non che ci sia arrivata notizia di qualche sitarello zozzo da Sirte, ma esiste un ben consolidato filone di “hijab porn” da sfruttare per allargare il posto della donna nell’immaginario islamico-occidentale. Sarebbe poco sensato far vertere tutte le nostre analisi sulle formule “seconda e terza generazione” e “l’Isis fa i video come quelli occidentali”, se poi non stringessimo sul punto distintivo della nostra società, ossia la libertà pornografica.

Anche se alla prima avvisaglia iraniana siamo assolutamente disponibili a coprire i nudi del Campidoglio, nel resto dei paesi del nostro emisfero non esiste tanto pudore rispetto al corpo umano, e ciò lo trasforma di fatto in un continente senza sovranità dove tutti possono intrattenersi.

In Occidente, gli attori e le attrici hard sono riusciti, a poco a poco, a ricavarsi delle nicchie di ascolto (diciamo i soliti nomi: Ovidie, Colby Keller, Valentina Nappi, Rocco Siffredi ecc.), ma sono gli attori di cultura islamica a interessarci: come Mia Khalifa e la sua collega Nadia Ali, entrambe star del cosiddetto “hijab porn” ed entrambe attiviste e oggetto di minacce di morte.

Se ammettiamo, com’è ormai di moda, che le donne velate e le donne sui tacchi a spillo sono simili (a insinuare che la stessa coercizione culturale stia tanto dove vige la sharia quanto dove vige Prada), allora dovremmo definitivamente fonderle insieme: utilizzare la commistione di simboli culturali e sesso, pornografia e clash of civilizations, appunto hijab e tacchi a spillo.

In questo modo forse si riuscirà a mischiare i due immaginari, a farli confluire in certi bacini comuni dove si scoprano uguali quanto basta per evitare a entrambi di sentirsi in qualche misura moralmente superiori, come se questa superiorità non sia, alla fin fine, tutta una questione di telegenia.

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