Ci sembra il caso di risollevare la questione centrale, la sorgente di tutti i problemi italiani, ossia quella dell’istruzione. Per farlo non possiamo che partire parlando di televisione.
Ci sono molti show che mostrano un’umanità spiazzante che ignora dove sia il Po, che pensa che Palermo sia in Calabria, che non ha idea di quando è stata scoperta l’America, che arranca sulle tabelline, che risponde “negli anni ‘70” alla domanda “quando è stata la seconda guerra mondiale?”, che cade nella maggior parte delle domande-trabocchetto ecc.
Divertono molti perché in qualche modo l’ignorante è visto come un fenomeno da baraccone o una bestia così straordinariamente evoluta da destare meraviglia e piacere come un orso che cammina stando in equilibrio su una palla. Molto del pubblico a casa sarebbe egualmente in difficoltà (cfr. i soliti servizi delle “Iene” sui parlamentari), ma ugualmente mostra di apprezzare. Curiosamente non si sente colto in castagna, non avverte che le risate registrate di sottofondo stanno ridendo dell’ignorante così come di lui stesso, o se lo avverte non ci fa caso e si diverte.
Una minoranza del pubblico di questi show, però, li vede perché sono brutti, grotteschi, terrificanti: in assenza di stimoli migliori, anche l’orrendo va bene. È il paradosso per cui c’è molta più offerta televisiva del passato, ma di pessimo livello, visto che si spende meno buttando in uno studio molto illuminato un po’ di casalinghe, alcuni disoccupati, qualche pennivendolo e altri corpi: analogamente, la considerazione si può fare sul fronte creativo, laddove constatiamo che il genio in epoca postmoderna non può che essere lo zenith della scemità. È un po’ anche il motivo per cui la riedizione di “Ciao Darwin” ha un alto tasso di giovani fra i telespettatori, perché è un ributtante rimasticato.
Il fatto che potrebbe rovinare il divertimento è il dubbio – sano – che tutto sia preparato, che non possa essere vero che un umano capace di usare un cellulare non associ a nulla il 1492.
Ma davvero qualcuno potrebbe accettare di venire ridicolizzato in questo modo, di passare per un involuto? La risposta è sì, perché tutto sommato sa di non suscitare davvero disgusto, sa di non passare per un appestato: il codice condiviso prevede che “non è questo che fa la persona”, che era una delicatezza degli istruiti in tempi in cui la povertà sbarrava la via della scuola.
Si può essere analfabeti, ma le nozioni scolastiche non fanno la persona. Si può essere rozzi, ma le buone maniere non fanno la persona. Si può essere miseri, meschini, non fare gli scontrini, ma… e la solita solfa. Si può essere tutto, anche onesti assassini all’occasione, ma c’è sempre qualcos’altro che consente di definire altrimenti quella persona (vedi il figlio di Riina da Vespa). In pratica il principio della cipolla: togli quello, togli questo, togli quell’altro e non resta niente. Ed è appunto la percezione di questo niente che sembra falsata; desta simpatia, fa ridere, magari è un po’ agghiacciante a volte o stupefacente, ma è comunque un intrattenimento; non spaventa in nessun modo, non solleva interrogativi sulle ragioni profonde di un decadimento generale, né tantomeno si associa la scarsa scolarizzazione alla manipolabilità dell’opinione pubblica, come se non fosse la scolarizzazione ad aiutare l’innesco della capacità di capire cosa si vota o in che mondo si vive.
Ricorda, per altri versi, l’ipocrisia o la diplopia ricorrente di personaggi come l’imprenditore Gemelli (compagno dell’ex ministro Guidi) che su twitter condannava la casta o come Vincenzo Artale (l’imprenditore antiracket ammanicato con la mafia): non sapere niente non fa niente, ma poi non si sa nemmeno che pesci prendere, ma i due fenomeni non vengono mai associati.
Ci sono poi programmi affini in cui il cuoco famoso esamina la cucina sgarrupata di qualcuno che ha ipotecato casa per aprire una pizzeria avendo solo esperienza di contabile in una fabbrica di fiammiferi. L’ex contabile sta fallendo e il cuoco famoso lo osserva, lo psicanalizza, lo redarguisce, lo indottrina, lo ripulisce e lo salva. È un programma di pedagogia spicciola per diffondere il verbo per cui ai giorni nostri non ci si può improvvisare nemmeno osti (il sottinteso è: prima di aprire un ristorante o devi aver fatto l’alberghiero o almeno un corso).
La domanda è: perché non unificare i due filoni mostrando una persona uscita dal brodo primordiale che aiuta uno che si è attardato a bordo vasca? Occorrerebbe un Cannavacciulo che spiegasse a cosa serve ciò che s’insegna nella scuola dell’obbligo.
Siamo sempre solerti nel ripetere che in questo paese tutto ciò che puzzi lontanamente di conoscenza o di sapere è negletta, ipofinanziata e derisa. Al di là di grancasse di circostanza in un senso o nell’altro, chiunque può constatare che a nessuno importa della morte dell’arte italiana, ormai silenziosa, sepolta in provincia, ignorata, insignificante, mortificante, ridotta a brand o “Made in Italy”. Cosa triste constatare che questa arte scomparsa non manca a nessuno e, anzi, è più negletta da chi più perde dalla sua assenza. Gli scrittori italiani, per dirne una, sono probabilmente a livello di riconoscimento sociale ai posti più bassi del globo: la loro opinione conta poco e spesso a ragione, il senso della parola scritta in forma narrativa è ridotto a empietà da ombrellone, il destino non è più roba dell’aedo (si parla di Elena Ferrante con serietà, perfino). L’ossequio davanti al titolo di studio è, nella concezione comune, qualcosa che ricorda – nel migliore dei casi – l’affrancamento dalla gleba, nella maggior parte dei casi un equivalente del corno rosso che portano attaccato alla catena del cipollone: una superstizione che, con la crisi, mostra le sue crepe e che ormai non è più uno status symbol ma perdita di tempo.
Da dove parte tutto questo? Forse, per comprenderlo, dovremmo interrogarci sulla cellula iniziale di questo decadimento: i maestri e le maestre degli elementari. E se prima parlavamo di televisione ora parliamo di social network.
È un affascinante esperimento quello di scrutare la pagina facebook dei maestri dei propri figli, come fanno già le aziende nei confronti dei dipendenti (paragone indebito, ovviamente): è lì che si scopre a chi è affidato il compito di educare la società che sarà.
Nessuno esige carisma, intelligenza, gradevolezza, fascino da un aspirante maestro, e questo è un errore, perché è alle elementari che comincia a formarsi il gusto, perché il maestro si rivolge ai bambini, che sono tutto intuito. Un maestro sgradevole non è un professore universitario sgradevole, perché del professore non importa a nessuno (addirittura non è infrequente che se ne auspichino infausti destini), mentre il modo di porgersi del maestro viene associato sempre e comunque e spontaneamente a ciò che spiega e si fisserà a ciò per sempre.
I social ci autorizzano a questa nuova ansia: stalkerare i maestri, tenerli sotto controllo (specie se così dabbene da non aver impostato parametri alti di privacy al loro profilo per evitare che gli alunni li vedano). Se la maestra di mio figlio scrivesse uno status come “Se dessi libero sfogo ai miei veri istinti sarei all’ergastolo” ne sarei tranquillizzato? In fin dei conti è una frase comune, che tutti possono dire, anche per scherzo: “Ah! Uno di questi giorni mi troverete sul giornale!”, magari lamentandosi della suocera, del capoufficio o del marito.
Ma se la persona che lo dice ha mio figlio per le mani cinque ore al dì o più? È ancora scherzoso?
E se, invece, condivide vignette che manifestano chiaramente la sua labilità mentale (con messaggi edificanti e pubblicamente visibili sul suo profilo come: “non sono la seconda scelta di nessuno”, “i vaccini fanno venire l’autismo”, “adoro la gente che mi abbraccia senza motivo”)? Mi posso permettere di lasciare le cose come stanno?
La maggior parte dei genitori risponde in due modi: “io devo lavorare, a qualcuno devo lasciarlo” e “se stai tutto il giorno coi bambini per casa impazzisci”, sottintendendo che devono mollare i propri figli a una maestra quale che sia per sopravvivenza. Certo, se brandendo delle forbici minaccia di tagliar loro la lingua se non stanno zitti, parte la sollevazione popolare e magari anche il casetto mediatico, ma il fatto che sia una mentecatta del tipo che passa le giornate a commentare post a casaccio sulle pagine fb di M5S sembra non essere poi così importante.
In questo i genitori sono come i figli: se questi ultimi accettano che sotto il letto ci sia l’Uomo Nero e tuttavia riescono a dormire, i genitori riescono a dormire pur sapendo che i figli passano moltissimo tempo con dei freak.
A tal proposito i maestri e le maestre possono anche risentirsi, appellandosi alla loro professionalità e a qualche altra cosa (una qualunque va bene), ma rimane il fatto che – salvo rare eccezioni che dovremmo incoraggiare… dovremmo – si tratta di persone di ignoranza disarmante, pedagogicamente arretrate (anche i giovani, sì), inadatti a formare il gusto di chiunque perché non ne hanno. Con le debite, diplomatiche, eccezioni.
Su questo problema di fondo, inafferrabile e latente, ma pressante, s’innesta quello della giustizia, che ha tutti i tratti tipici della giustizia di un paese feudale o gravemente disagiato quanto a senso civico (anche fra i sorveglianti dell’ordine). L’intera società italiana sembra ricostituirsi oggi in uno schema tribale per non aver capito o digerito sviluppi successivi agli anni ’80, gli anni dove il progresso c’era ma docile e il passato rimaneva fissato nei capelli vaporosi e negli abiti fumettistici.
Dopo aver creduto alla laurea ed esserne rimasto deluso, oggi l’italiano tributa ai maestri il proprio rancore per essere stato illuso, forse inconsciamente consapevole di non essere stato formato in modo adeguato, e si appronta per condurli al discredito e all’estinzione per poi tornare ai veri “beni rifugio”: gli ex voto.